Riceviamo e pubblichiamo più che volentieri questa lettera di una nostra corrispondente dall’altra parte dell’Oceano che ci parla
dall’interno del movimento no war statunitense, della sua forza e delle sue contraddizioni, toccando questioni che vanno molto al di là di esso.Dagli Stati Uniti
in presa diretta
"Cari compagni,
vi scrivo dalla patria del capitale allo scopo di scambiare con voi alcune considerazioni sugli avanzamenti, le difficoltà e le contraddizioni che deve affrontare oggi il movimento statunitense.
Descrivere la situazione attuale del movimento americano non è facile. Negli ultimi due anni, la classe lavoratrice americana è stata messa a dura prova da una crisi economica e politica fatta di recessione, guerra e repressione. Centinaia di compagnie in bancarotta, milioni di licenziamenti, tagli alla scuola e alla salute, attacchi all’attività sindacale, migliaia di cittadini ed immigrati perseguiti o arrestati, un clima violento di razzismo e persecuzione contro i musulmani, i dissidenti e gli "scettici" politici, e la prospettiva di un futuro ove il "sogno americano" diventa l’incubo di una guerra "senza fine", hanno creato una condizione sociale in cui le masse lavoratrici hanno provato, in molti casi per la prima volta, una sensazione di vulnerabilità economica e politica.
La svolta dell’11 settembre
La classe lavoratrice americana si è coricata, l’11 settembre 2001, in uno stato confusionale. "Tutto d’un tratto", alla sera dell’11 settembre, non c’era più il sogno americano: era crollato con le torri gemelle, lasciando posto ad una realtà fatta di precarietà, di insicurezza, di paura. Tutto d’un tratto nella vita sociale e politica americana c’erano solo due cose: una guerra che era entrata fin dentro casa, e il "tuo" governo che ne preparava un’altra. La popolazione americana tutta, senza distinzioni di classe, veniva ora chiamata in causa. Avendo davanti a sé, oggettivamente, solo due possibili scelte: essere a favore della campagna di guerra e razzismo del "proprio" governo, o essere contro.
Non si può dire, però, che la questione fosse così chiara per le masse in America. Il disorientamento politico seguito al crollo delle torri gemelle; l’impreparazione storica e politica delle masse americane, spesso ignare di quel che succede nel mondo; la propaganda di stato, che associava in modo mistificatorio il rispetto delle vittime con l’appoggio al governo, creando tra le masse l’impressione di dover scegliere tra le vittime delle torri gemelle e le popolazioni del terzo mondo, tra i morti a stelle e strisce e i morti causati dalle guerre a stelle e strisce; erano altrettanti fattori che rendevano difficile ai lavoratori statunitensi prendere una netta posizione contro la campagna di guerra di Bush&C. Tuttavia, una delle conseguenze più ‘inaspettate’ dell’11 settembre è stata la comparsa di un sentimento spontaneo di solidarietà e fratellanza con le popolazioni mediorientali, sorto esattamente a seguito, ed a causa, dell’11 settembre. Per la prima volta, le popolazioni oppresse del mondo sono apparse agli occhi di tanti americani comuni così simili alle vittime (comuni) delle torri gemelle. E questo spontaneo sentimento internazionalista ha giocato contro l’amministrazione Bush, poiché cozzava contro la richiesta del governo di favorire le sue politiche di sangue. Il movimento americano no war è nato nel mezzo, e come risultante, di queste complicate e contraddittorie dinamiche.
Un movimento tenace e coraggioso
A partire dall’11 settembre, la sezione più combattiva delle masse americane ha cercato di sciogliere questi nodi e prendere una posizione il più possibile coerente sulla nuova accelerazione politica e militare dell’amministrazione Bush. Per due anni in centinaia di migliaia sono scesi in piazza con continuità e coraggio contro la guerra all’Afghanistan, la guerra all’Iraq, la persecuzione degli immigrati, il Patriot Act, la restrizione delle "libertà civili" (che devo virgolettare, perché nulla è realmente libero nella patria del liberalismo, e tutto è "civile", ma che il proletariato ci salvi da questa civiltà!). Per due anni questo movimento ha dato prova di grande passione e determinazione, sorprendendo non solo il governo, ma anche il movimento mondiale. Non si possono avere che parole di elogio per l’intensità del lavoro della gente no war in America: la tenace, instancabile attività del movimento è stata ed è degna di quella del proletariato più produttivo ed intenso della storia. Tuttavia, anche in questo sta il problema.
Le manifestazioni contro la guerra in Iraq hanno avuto, su scala sia nazionale che locale, una durata e una forza quantitativa degne di nota. Il 26 ottobre 2002 quasi 400 mila persone hanno marciato nelle piazze di Washington e San Francisco, arrivando, nella capitale, a circondare la Casa bianca, con una partecipazione che la gran parte del movimento americano non aveva mai visto prima. Il 18 gennaio e il 15 febbraio 2003 mezzo milione di persone hanno riempito rispettivamente le strade di Washington e di New York, con autobus e macchine arrivate da tutte le parti degli Stati Uniti, sfidando la neve ed il freddo (18 gennaio) e il divieto di manifestare (15 febbraio). Le manifestazioni, poi, sono state incalzanti, anche quotidiane, su scala locale in tutti gli Stati Uniti, con l’importante novità di coinvolgere molte "sezioni" di un sindacato che è da svariati decenni il più sciovinista dell’intero Occidente. Gli "attivisti" sono rimasti sulle strade per giorni e notti intere, anche in numeri ridottissimi, con determinazione. Per dimostrare al mondo intero che in America esiste un movimento capace di rispondere appassionatamente NO al proprio governo; capace di gridare "PRESENTE" nelle piazze, nelle scuole, nelle chiese e nei luoghi di lavoro; capace di far convergere insieme gruppi di provenienza diversa, e di alzare la voce su una molteplicità di questioni: non solo la guerra, ma anche i raid contro gli immigrati, l’appoggio Usa al governo israeliano, la "nuova" campagna di guerra contro la Corea del Nord, l’Iran….
Il movimento statunitense ha avuto e ha una capacità e una volontà di mobilitazione che supera, anche nelle sue frange più pacifiste, quella sorta di inerzia e "mollezza" che mi sembra di vedere nel movimento italiano. Pertanto il suo problema non è certo la poca passione. Il suo grande problema è che per esso, come del resto per tutto il movimento "no global" e per tutto il movimento di classe, è giunta l’ora di ragionare con la più fredda e lucida razionalità e strategia politica. Il problema principale del movimento americano è che risente di grossi limiti in termini di storia, esperienza, strategia e direzione, e tali limiti si esprimono in modo particolare in due fattori tra loro collegati: l’individualismo e l’educazione ad essere fedeli allo stato.
Nodi da sciogliere
Comincio dal secondo.
Negli ultimi mesi, il movimento si è affannato a portare le masse sulle strade, "organizzando" coalizioni il più ampie possibili, con dentro tutte le voci possibili. Il risultato è che le dimostrazioni statunitensi degli ultimi mesi sono riuscite a mobilitare ad ampio raggio, ma in questa mobilitazione massiccia il movimento è rimasto stretto nella contraddizione in cui era stato posto dal governo, tra la patria ed il capitalismo da una parte, ed un embrione di internazionalismo dall’altra. Il movimento è sceso nelle strade sull’onda di un sentimento internazionalista spontaneo, ma in questa mobilitazione ha, da una parte, criticato il governo, e dall’altra dichiarato il suo patriottismo. Ha gridato per la fine della guerra in Iraq, e però spesso ha rinnovato il suo supporto alle truppe. Ha (nelle sue punte più avanzate) criticato il sistema economico e militare dello stato americano, ma riaffermando la sua fiducia nella democrazia, che del sistema è un pilastro.
Il movimento, quindi, non è ancora uscito dal ricatto governativo che impone di scegliere tra patriottismo ed internazionalismo. Non ha ancora identificato nella propria patria capitalistica e nei suoi rappresentanti il proprio NEMICO DI CLASSE. Ha "semplicemente" cercato di conciliare l’inconciliabile: il patriottismo e l’opposizione al governo, appellandosi alla libertà individuale d’opinione. In generale il movimento non vede l’amministrazione Bush come rappresentante dei capitalisti. Esso considera l’amministrazione un "errore" nella (altrimenti buona) storia americana; un errore da "correggere" con nuove elezioni o con pressioni popolari, scrivendo lettere ai rappresentanti al senato e al congresso per "chiedere loro" di "comportarsi bene". Il primo problema del movimento americano è, pertanto, che non ha ancora chiaro chi è e dove sta il nemico, e nel tentativo di uscire da tale contraddizione si appella a quelle stesse istituzioni che tenta affannosamente di combattere, rilegittimandone l’esistenza e l’azione, e ponendosi così in una posizione fortemente contraddittoria e pericolosa.
Questo è il primo problema. Il secondo problema deriva dall’individualismo, una componente tanto basilare quanto il patriottismo, di un sistema sociale basato sull’appropriazione e la competizione, sistema che ha, di per sé, come unica conclusione possibile (salvo la dittatura del proletariato) la lotta di tutti contro tutti. L’individualismo, in quanto corrispettivo psicologico e sociale della proprietà privata, è tanto più esasperato in America che nel resto del mondo. Esso si esprime in una lotta politica frammentata, ove nascono gruppi ed organizzazioni diverse quasi ogni giorno. Le tre organizzazioni che oggi sono alla guida del movimento, International ANSWER, United for Peace and Justice e Not in Our Name, sono tutte di recente formazione. La cosa, di per sé forse poco rilevante, è però rappresentativa di un sistema in cui ogni nuovo evento diventa la ragione per formare un nuovo gruppo, in una logica "fluida" ed ideologicamente "aperta", volta al più ampio "inclusivismo" di diversi settori e tendenze della popolazione; logica, questa, che non arriverà mai a liberare il proletariato dallo sfruttamento capitalistico, non perché finalizzata ad ampliare il movimento di lotta, ma perché manca in essa ogni chiara nozione del fine della lotta e dei suoi mezzi, dell’obiettivo ultimo e della strategia per raggiungerlo. Tale politica fluida e "inclusivista" non ha alcun punto fermo né a livello storico né di riferimento sociale o ideologico. Al contrario, essa cerca di continuo di "livellare" e pacificare le contraddizioni. Ed ecco che il movimento riesce ad essere nello stesso tempo a favore e contro il governo, contro la guerra e per il supporto alle truppe che fanno la guerra. Ecco che riesce a chiedere un mondo diverso e, nel contempo, la democrazia. Ma non si può avere eguaglianza di diritti e diversità umana nel mondo del capitalismo. Non si può essere contro la guerra e a favore di un sistema che vive della guerra. Non si può essere allo stesso tempo internazionalisti e patriottici. Non si può lottare per una società diversa rimanendo, ancora, così imbrigliati nelle contraddizioni della "società" capitalistica.
Sfide da affrontare
Il movimento americano ha oggi di fronte due sfide.
Primo, cominciare a vedere i governi di Washington per ciò che sono: uno squadrone di assassini che ha vissuto da sempre del lavoro e del sangue di popolazioni intere, dagli afroamericani schiavi importati come merce di scambio e tutt’ora in vera e propria cattività, dai nativi sterminati e tuttora sfruttati e segregati nelle parti del paese più contaminate alle popolazioni sudamericane, oppresse da un’infinità di programmi finalizzati a privarle di tutte le loro ricchezze naturali, fino alle popolazioni asiatiche, est-europee e mediorientali, per discutere delle quali non basterebbe un’enciclopedia.
Secondo, dotarsi della strategia di lotta adeguata per affrontarlo e sconfiggerlo. Il movimento americano è chiamato a riconoscere l’essenza di classe del proprio governo, e sottrarsi al ricatto in cui questo l’ha posto. Esiste un modo per essere sia dalla parte delle vittime "innocenti" dell’11 settembre che dalla parte delle popolazioni del terzo mondo, ed è la pratica dell’internazionalismo di classe e dell’organizzazione di partito. Questa via taglia con tutte le menzogne del patriottismo, del capitalismo e della democrazia. Taglia con tutte le strategie affannosamente orientate a portare in piazza "tutti" ma per nessun chiaro obiettivo. Questa via guarda al nemico capitalista e alle necessità della classe lavoratrice come ai due punti contrapposti di un cammino che deve essere fatto "linearmente" e con coraggio andando dalle seconde contro il primo senza deviare verso tangenti suicide. Questa via si basa sulla più ampia, certo che sì!, solidarietà di classe, ma non può restare in silenzio di fronte alle contraddizioni interne alla mobilitazione delle masse che viene svuotata dal desiderio inconcludente di gentile inclusivismo oggi così presente. Il gentile "inclusivismo", per quanto "grazioso" nei rapporti interpersonali, è suicida e letale, poiché lascia inalterate le contraddizioni esistenti. Al contrario, una strategia di lotta coerente deve affrontare le contraddizioni interne al movimento. E richiede una meticolosa organizzazione di partito, ove non ci sia spazio per le confusioni e gli individualismi, ma solo per una lotta disciplinata che comincia oggi per terminare quando sarà scomparso ogni perverso rimasuglio di capitalismo. Ove non ci sia necessità di digressioni verso il nulla, ma solo una chiara strategia per portare il mondo dal capitalismo al comunismo, passando attraverso tutte le difficoltà del caso, ma assicurando, alla fine, vero spazio per l’uguaglianza e la diversità, non per la democrazia che le ammazza entrambe; vero spazio per l’"inclusione", non per un falso inclusivismo; vero spazio per la libertà d’opinione, non per le ciance che rigurgitano la propaganda di stato. Vero spazio per una comunità umana senza guerra, ove nessuno si debba sentire in colpa per la sua solidarietà internazionalista, ma eventualmente per i suoi avanzi di patriottismo.
Vi sarebbe molto di più da dire, ma questo breve aggiornamento sullo stato del movimento americano voleva essere semplicemente uno stimolo a discutere nelle nostre sedi, negli Stati Uniti e in Italia, come si confà ad un movimento che ha il coraggio di mettere in questione il sistema o le parti del sistema che si porta dentro, sino alla loro totale eliminazione. Voleva essere, anche, uno stimolo al movimento italiano perché impàri dalla passione e determinazione del movimento americano, ancora oggi cocciutamente nelle strade perché convinto che "The world needs us in the streets, we won’t back down, we won’t retreat!" (Il mondo ha bisogno di noi sulle strade, e noi non ci tireremo indietro), ed uno stimolo al movimento americano perché impari da forme di organizzazione politica ove si cerca, sì, l’ampia coalizione, ma senza fare sconti sugli obiettivi e sul programma. Perché senza obiettivi e un programma adeguati, ogni mobilitazione può essere un successo, ma il successo rischia di non andare oltre la sola mobilitazione."