Perché non c’è stato
un vero
sciopero generale
contro la guerra?
Da più parti nei lunghi mesi che hanno preceduto l’aggressione all’Iraq, si è parlato della necessità di opporsi allo scatenamento della guerra con lo sciopero generale. E non è mancato chi -a parte noi- ha evocato anche lo sciopero generale europeo, e perfino quello internazionale. Ma a conti fatti, dopo qualche iniziativa di valore simbolico (i 15 minuti di "astensione" indetti dalla Confederazione europea dei sindacati -Ces) o poco più che simbolico (il disorganizzatissimo "sciopero generale" di 2 ore indetto da Cgil-Cisl-Uil il giorno dei primi bombardamenti), i vertici dei maggiori sindacati occidentali hanno ben presto archiviato ogni idea, anche solo platonica, di sciopero generale internazionale contro la guerra.
Non ci prendiamo né vogliamo prendere in giro nessuno affermando: masse di lavoratori erano già pronti a rispondere alla chiamata. Diciamo solo che nel ’91 (prima aggressione all’Iraq) o nel ’99 (aggressione alla Jugoslavia) l’indifferenza dei lavoratori euro-occidentali fu quasi totale, quasi che quelle guerre non avvessero alcuna conseguenza, o addirittura potessero avere conseguenze positive, su di loro. Questa volta, invece, in tutto il mondo del lavoro c’è stata assai maggiore preoccupazione e anche un diffuso sentimento anti-guerra. Inoltre, a differenza di allora, era in campo un movimento "no-global" attivo contro i disastri provocati dal capitalismo. Qualche chance in più di una vera ed organizzata mobilitazione dei lavoratori nel movimento anti-guerra c’era, perciò, ma non s’è concretizzata. In molti hanno partecipato alle manifestazioni ma, salvo singoli episodi, lo si è fatto sulla base di un’adesione e una partecipazione largamente individuali. La presa in carico della lotta contro la guerra da parte del movimento proletario è stata davvero insufficiente.
Un intreccio appena embrionale
L’intreccio tra movimento anti-guerra e organizzazione sindacale dei lavoratori, tuttora ad uno stato puramente embrionale e ben al di qua della reale saldatura di obiettivi e di organizzazione verso la quale occorre procedere, sconta differenze notevoli da un paese all’altro.
È maggiormente presente in paesi come l’Inghilterra o gli Stati Uniti. In Inghilterra la presenza cospicua di un proletariato multirazziale -con una forte componente islamica- nelle Trade Unions o nella stessa base del Labour determina una spinta reale di settori e pezzi del movimento sindacale alla solidarietà di classe con i popoli del sud del mondo e con gli immigrati. Questa spinta è stata però raccolta molto debolmente o per nulla dall’insieme del movimento dei lavoratori, soprattutto dalla sua componente bianca. Dodici Unions si sono affiliate alla Stop the War Coalition, uno dei maggiori coordinamenti che hanno promosso le mobilitazioni contro la guerra. La Stop the War Coalition ha svolto una campagna mirata per chiamare le Unions allo sciopero. I rappresentanti di varie Unions -vigili del fuoco, ferrovie, pubblico impiego, etc.-, dando giusto risalto all’esempio dei due macchinisti inglesi rifiutatisi di condurre il treno che trasportava materiale bellico, si sono espressi per l’indizione di una giornata di protesta. Ma la petizione è stata fiaccamente supportata e poi prontamente disattesa dal congresso delle Trade Unions.
Negli Usa, l’United States Labour Against the War (Uslaw), che riunisce organizzazioni sindacali nazionali e singole categorie non tutte facenti parte dell’Afl-Cio, con oltre 5 milioni di lavoratori iscritti "contrari sia alla politica interna di Bush che a quella estera e per questo accusati apertamente di antipatriottismo", così si è rivolta nei primi giorni di aprile al congresso delle Trade Unions: "Chiediamo di intervenire affinché le operazioni militari cessino immediatamente e le truppe anglo-americane vengano subito ritirate dall’Iraq, risparmiando al popolo iracheno altra morte, distruzione e sofferenza e difenderemo in ogni caso la popolazione araba che vive negli Stati Uniti contro la violenza razzista e la persecuzione politica. Non accetteremo che la scusa della sicurezza nazionale venga usata ancora per erodere le libertà civili e i diritti del lavoro" (il manifesto, 3 aprile). Ma anche in questo caso non se ne è fatto nulla.
In Francia e Germania, nonostante l’evidente collegamento tra la posizione fintamente "pacifista" (in realtà di assunzione di più ampie prospettive e "responsabilità" imperialistiche in proprio) dei rispettivi governi e l’aggressione interna ai diritti dei lavoratori, le massicce mobilitazioni di piazza dei lavoratori, soprattutto in Francia contro l’attacco al pubblico impiego, al welfare state ed al regime pensionistico, si sono tenute su un terreno rigorosamente separato rispetto alle iniziative contro la guerra. E ne è ben chiaro il perché se anche nei cortei italiani contro la guerra abbiamo visto sventolare qua e là liberamente bandiere francesi e tedesche (laddove erano vietate invece quelle irachene perché … "saddamite").
In Italia abbiamo registrato episodi in cui lavoratori non hanno accettato passivamente il coinvolgimento nella macchina di guerra, in particolare dentro e intorno al porto di Livorno con alcune significative azioni di lotta da parte dei portuali. A queste buone premesse non è seguìta però una generalizzazione degli scioperi e della partecipazione organizzata dei lavoratori nei momenti in cui più sarebbe stata indispensabile. Le direzioni uliviste e diessine da un lato, e i vertici dei sindacati confederali e della stessa Cgil dall’altro, si sono spesi per calmierare contenuti e obiettivi delle iniziative di piazza, soprattutto per circoscrivere a livello locale e a episodi singoli la scesa in campo organizzata dei lavoratori. Le direzioni diessine lo hanno fatto dichiarando che il pacifismo coerente dovesse schierarsi, a guerra "ormai iniziata", per la più rapida vittoria degli americani; Epifani e soci lasciando scivolare la questione dello sciopero, ergendosi invece a paladini "contro le divisioni nel movimento", e dunque ipotecando le iniziative perché si marciasse tutti insieme appassionatamente con i vari Fassino e Rutelli… E così nel giro di pochi giorni, proprio a causa della mancanza di un’efficace risposta e battaglia politica del movimento e delle sue supposte "avanguardie" contro questa deriva di smobilitazione e sciovinismo, il clima delle iniziative è decisamente cambiato. Così se "il no alla guerra" aveva "invaso lo sciopero unitario della scuola" del 24 marzo (così, esagerando, il manifesto), invece, per trasformare la giornata del 12 aprile, già indetta dalla Cgil sulla scuola, in una manifestazione pacifista "la discussione non è stata facile" e alla fine "sono state scartate le ipotesi che volevano coniugare scuola e pace, perché quest’ultima avrebbe finito per schiacciare la prima" (il manifesto del 2 aprile). Giammai! Prima di tutto e soprattutto i "nostri" problemi e i problemi della "nostra" nazione, o della nazione-Europa, poi tutto il resto. E in fondo a tutto, la solidarietà con gli "spregevoli" aggrediti…
Soltanto in Grecia la mobilitazione contro l’aggressione all’Iraq, come già al tempo dell’aggressione alla Jugoslavia, è stata vera e ha visto in campo la partecipazione organizzata dei lavoratori. Le confederazioni dei lavoratori del settore privato e pubblico -la Gsee e l’Adedy- hanno indetto il 3 aprile uno sciopero generale, che ha paralizzato veramente il paese per l’intera giornata; e quando il governo, in occasione del vertice europeo di Atene del 16 aprile, per evitare manifestazioni di protesta, ha proclamato una giornata di festa, tutte le componenti del movimento e le confederazioni hanno indetto una nuova giornata di sciopero e di mobilitazione, dando una adeguata accoglienza ai vari Aznar, Blair, Berlusconi, Raffarin, Schroeder.
A guerra scoppiata, tutti in riga! (i capi)
In buona sostanza le direzioni dei principali sindacati occidentali, pur dovendo tener conto della pressione di una estesa mobilitazione e -qua e là- anche dell’iniziativa diretta dei lavoratori, sono riusciti a giostrarsela con abilità esprimendo dapprima una "opposizione" alla guerra strapiena di "se" e di "ma", e quindi, appena pochi giorni dopo l’inizio dell’aggressione, scaricando completamente il movimento anti-guerra con delle dichiarazioni di aperto sciovinismo.
Sweeney, presidente dell’Afl-Cio americana, ha dichiarato il 20 marzo che l’Afl-Cio "si schiera fermamente a sostegno delle proprie truppe": "ora che la decisione è stata presa, noi siamo inequivocabilmente a sostegno del nostro paese e degli uomini e delle donne di America al fronte così come con le loro famiglie qui in casa". Stessa musica per i vertici delle Trade Unions inglesi: "dopo esserci battuti invano per un’azione contro Saddam coperta dall’Onu", ora "bisogna essere solidali e vicini alle truppe". Proprio in quei giorni la leadership del Fbu (la Union dei vigili del fuoco aderente alla Stop the War Coalition) ha sospeso un lungo sciopero della categoria e chiuso al ribasso un’aspra vertenza, mentre i vertici del Tuc hanno iniziato ad attaccare la Stop the War Coalition accusandola di puntare a rovesciare il governo Blair.
Meno plateale, ma non meno efficace il voltafaccia di Epifani e soci. Subito dopo l’inizio dei bombardamenti e il direttivo Ces che avrebbe dovuto decidere lo sciopero generale, Epifani così ha commentato: "Abbiamo escluso lo sciopero perché non possiamo andare avanti con uno sciopero sull’altro" (il manifesto del 24 marzo). Eccola l’opposizione "senza se e senza ma"! Due ore e un quarto di sciopero mal organizzate a fronte di una aggressione militare di devastanti proporzioni sarebbero "uno sciopero sull’altro"! Negli stessi giorni Fassino poteva dichiarare soddisfatto: "almeno sulla questione della guerra Cgil-Cisl-Uil hanno una posizione unitaria". E, infatti, la posizione unitaria è stata cementata proprio grazie all’uscita di scena dello sciopero generale. Ci ha pensato Angeletti a parlare fuori dai denti: "La guerra l’ha voluta Saddam e Bush non è riuscito a evitarla" (il manifesto del 4 marzo). La guerra, questa la infame morale, non nasce qui, bensì tra i "barbari" del terzo mondo…
In questo contesto riconosciamo ai sindacati auto-organizzati il merito di avere indetto lo sciopero generale del 2 aprile, così come già fecero contro l’aggressione alla Jugoslavia. Al tempo stesso riteniamo necessario invitare questi compagni e lavoratori a una discussione franca perché i contenuti della loro chiamata allo sciopero sono stati, a dir poco, deboli; inoltre non c’è stata una vera battaglia tra i lavoratori per motivare sul piano politico la necessità dello sciopero e denunciare il defilarsi di Cgil-Cisl-Uil; si è vista piuttosto una politica volta a "preservare i rapporti unitari nel movimento" a fronte di scelte e comportamenti così diversi. E non si tratta di tattica. La manchette della Confederazione Cobas pubblicata su il manifesto del 18 marzo per lo "sciopero generale contro la guerra" parla chiaro. È vero, vi viene citato il governo Berlusconi, mentre i vertici di Cgil-Cisl-Uil nella fase di "mobilitazione" anti-guerra avevano accuratamente evitato qualsiasi riferimento alla questione, ma lo si fa soltanto per dire che esso si accoda servilmente agli Usa, tralasciando di fare proprio e di rilanciare l’obiettivo della cacciata del governo Berlusconi ad opera di un fronte di lotta che saldasse la risposta di piazza contro l’aggressione al popolo iracheno a quella contro l’offensiva interna del governo e del padronato. I Cobas, si afferma, si oppongono alla guerra perché essa "sarà una catastrofe terribile che rischia di incendiare tutto il Medioriente, mettere in crisi la pace mondiale, cancellare definitivamente il ruolo dell’Onu". Quale pace?, la pace di chi?, verrebbe messa in crisi, se le popolazioni del Medio Oriente, dalla Palestina all’Iraq, sono impegnate da decenni a resistere alle devastazioni, alle aggressioni, agli embarghi? E a fronte di tutto ciò sarebbe veramente una "catastrofe" -e per chi?- se gli sfruttati di tutto il Medioriente, con un vero movimento anti-guerra in Occidente al proprio fianco, insorgessero come un sol uomo e ricacciassero indietro l’aggressione imperialista? E che significa mai il richiamo al ruolo dell’Onu, quando l’Onu è responsabile, tra l’altro, dell’aggressione del ’91, di dodici anni di embargo e, da ultimo, delle ispezioni e del disarmo delle residue difese di un paese che stava per essere attaccato dalle massime potenze imperialiste?
Dov’è il limite?
Il tenore di simili pronuciamenti completa il quadro reale, non esattamente esaltante, delle mobilitazioni anti-guerra in Occidente.
Certo non siamo più alle dichiarazioni di un Cofferati sulla "contingente necessità" dell’aggressione italo-americana alla Jugoslavia a petto di un mondo del lavoro largamente sordo a qualsiasi richiamo di solidarietà internazionalista verso i fratelli slavi aggrediti. Oggi, lo dicevamo in premessa, un certo numero di lavoratori inizia a intravvedere il filo unitario che lega attacco esterno e attacco interno. Ma il punto nodale della debolezza attuale sta nell’elusione di ogni collegamento tra i lavoratori di qui, quand’anche in agitazione contro la guerra, e le masse di colore aggredite in lotta contro l’imperialismo. Non si vuol vedere e si respinge un legame di vera solidarietà e di lotta con gli sfruttati del sud del mondo. Non li si percepisce come propri fratelli. Non si vede e non si rivendica la loro resistenza all’imperialismo come parte della propria stessa battaglia contro il "proprio" governo ed i "propri" padroni. I lavoratori occidentali si oppongono alla guerra (quando lo fanno) per motivi propri, avvertiti come non avessero nulla a che vedere con i colpi subiti dagli sfruttati del sud del mondo e con la risposta che essi vi danno, da soli. Un conto è che i lavoratori portuali rifiutino l’imbarco di armi all’uranio impoverito perché ciò mette a repentaglio la propria sicurezza; un altro è che, magari a partire da questo fatto, ci si inizi a schierare dalla parte delle popolazioni contro le quali il "nostro" imperialismo si dispone a vomitare armi micidiali e operare devastazioni d’ogni genere. È questa la direzione di marcia che è mancata oggi al movimento. È questa la direzione di marcia che i lavoratori occidentali sono chiamati ad intraprendere.
Per percorrerla fino in fondo, non potranno contare su quanti -a cominciare dai "portavoce" del movimento "no global"- hanno evitato con cura di dare battaglia contro l’opposizione di facciata delle direzioni sindacali e politiche uliviste, beandosi, anzi, stoltamente della grande unità raggiunta a tavolino con gli "stati maggiori" del riformismo, a cui ha fatto prontamente seguito la paralisi e la "scomparsa" del movimento. Si dovranno convincere a far conto finalmente sulla propria auto-attivazione in prima persona e su quella preziosa risorsa, oggi ancora da tutti messa al bando, che è l’i n t e r n a z i o n a l i s m o.