Dopo la guerra... la guerra continua anche sul fronte interno.
Referendum sull’art. 18
e contratto metalmeccanici:
proviamo a fare un bilancio.
Il "libro bianco" di Maroni, attraverso tutta una serie di decreti attuativi (legge 30, 848-bis, ecc.) che hanno avuto o stanno avendo l’avallo del parlamento, è ormai una realtà che sancisce l’ulteriore precarizzazione dei rapporti lavorativi. L’esistenza stessa del contratto nazionale di categoria è sempre più apertamente nel mirino della Confindustria e la recente vicenda metalmeccanica che ha visto Cisl e Uil firmare un pessimo rinnovo da cui giustamente si è dissociata la Fiom-Cgil, ne è un chiara ed esplicita conferma. Intanto, nel nome e con l’appoggio dell’Unione europea, le pensioni tornano prepotentemente ad occupare l’agenda del governo Berlusconi. Non c’è che dire: ci troviamo di fronte ad un’altra offensiva a tutto campo che punta non solo ad abbassare tutti i costi -diretti ed indiretti- delle aziende, ma a togliere di mezzo ogni residuo elemento di unità materiale e normativa tra proletari. Un’offensiva politica che mira a sgretolare ulteriormente (con una pesantezza che non ha pari nel dopoguerra) il mondo del lavoro frammentandolo in mille rivoli separati e concorrenti tra loro.
Una particolarità contingente e tutta italiana?
Certo, con il ritorno a Palazzo Chigi del cavaliere, questo attacco ha subito un netto colpo d’acceleratore. Ma appunto di questo si tratta: di un’accelerazione lungo una strada che si era iniziata a percorrere già da tempo e che risponde alle necessità tutt’altro che transitorie del capitalismo nazionale ed internazionale. Berlusconi ha ingranato una marcia più alta (con maggiore oculatezza di quanto fece nel ’94), ma la direzione è quella imboccata, con maggiore cautela, dai precedenti governi ulivisti. Il "pacchetto Treu" (che introdusse il lavoro in affitto e altre amenità del genere) e la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (che istituì tra l’altro quei moderni lager per "extra-comunitari" che vanno sotto il nome di centri di permanenza temporanea) non sono forse i legittimi precursori dell’attuale "libro bianco" e della Bossi-Fini? E non è cosa risaputa che il governo D’Alema stava iniziando a sondare il terreno per colpire anch’esso l’articolo 18? Nulla di contingente dunque, e neanche un caso "tutto e solo italiano". Basterebbe dare uno sguardo a quanto sta accadendo in Europa ("pacifiste", "sociali" ed "alternative" Francia e Germania incluse) e negli Stati uniti per vedere che ovunque la ricetta del capitale e dei suoi governi è la stessa: attacco alle tutele normative dei lavoratori, alle pensioni ed alla spesa sociale, e tanta, tanta precarietà e flessibilità. Di "particolare" in Italia vi è soltanto l’urgenza che il nostrano capitalismo ha di realizzare le "riforme" per non vedere peggiorare la sua collocazione internazionale che lo vede oggi tra i fanalini di coda del gruppo delle potenze che dominano e saccheggiano l’intero pianeta.
Una risposta bloccata a metà e dispersa
Nella primavera-autunno del 2002 contro le accelerazioni berlusconiane e dietro le bandiere della Cgil si è sviluppata la massiccia risposta dei lavoratori culminata nella grande manifestazione romana del 23 marzo e negli scioperi generali del 16 aprile e del 18 ottobre.
Di fronte alla vastità di quella mobilitazione, il governo ha temporaneamente accantonato l’assalto all’articolo 18, proseguendo però, attraverso un insieme di misure (e grazie al "patto per l’Italia" stipulato con Cisl e Uil), a limitarne ulteriormente l’efficacia e il campo d’applicazione. In questa situazione i vertici Cgil, invece di rafforzare il movimento di lotta attraverso scioperi generali continuati ed incisivi finalizzati alla cacciata di Berlusconi, hanno al contrario "sospeso" la mobilitazione. Così la piazza è stata svuotata e la questione del governo rimandata a una futura (e ipotetica) rivincita elettorale dell’Ulivo. Ne è scaturito un risultato più che brillante: il governo ha ripreso fiato e ora rilancia lo stesso attacco all’art. 18, mentre le nostre forze hanno subìto una reale dispersione. Tutto ciò non è avvenuto per l’insipienza di un Cofferati o di un Epifani, ma per l’immodificabile nocciolo su cui fa perno -con varie sfumature- l’intero "riformismo" politico e sindacale (di cui il "cinese" ed il suo successore sono esponenti): la subordinazione (anche conflittuale) della tutela dei lavoratori alle "superiori" esigenze dell’economia nazionale. Oggi sono proprio queste "supreme esigenze" ad imporre che oltre un dato (e sempre più angusto) limite nelle rivendicazioni e nella coerenza con cui le si porta avanti, "non si possa proprio andare".
Articolo 18 e referendum
Per dare uno sbocco "concreto e positivo" alle mobilitazioni del 2002 una serie di forze, a cominciare da Rifondazione e dalla Fiom, hanno promosso il referendum per l’estensione dell’articolo 18 alle aziende con meno di 15 dipendenti.
Scriviamo queste note alla vigila della consultazione ben sapendo che -visti i ridotti mezzi a nostra disposizione- il lettore avrà nelle mani questo "pezzo" quando gli esiti del referendum saranno più che noti. Il nostro fine, però, non è quello di "azzeccare" il risultato, ma di ragionare su come si è sviluppata la campagna per "SI" e su quali scenari (in un certo senso indipendentemente dal responso dalle urne) si prospettano.
Riguardo alla nostra complessiva posizione sull’istituto referendario rimandiamo a quanto scritto nel n. 60 del che fare; qui ci limitiamo a ribadire che noi non crediamo che si possa ottenere realmente e stabilmente attraverso la cabina elettorale quanto si è perso o non si è saputo conquistare in campo aperto. Il quesito sull’art. 18 ha sollevato una questione vera, ed è chiaro per noi che di fronte alla campagna per il "SI" (un "SI" ovvio per noi e, supponiamo, per buona parte dei nostri lettori) non si dovesse tenere un atteggiamento di indifferenza e di supponente distacco. La questione sta in ben altri termini. Proprio perché il referendum verteva su una questione di classe, la campagna referendaria andava utilizzata innanzitutto per rilanciare, nei termini possibili, un reale dibattito e bilancio tra i delegati e i lavoratori su quanto sta accadendo e su come attrezzarsi alla bisogna ben oltre il referendum. Invece nulla di tutto ciò è avvenuto.
Quasi sempre, nella speranza di accaparrare maggiori consensi, l’estensione dell’art. 18 è stata presentata come la conquista di "un diritto di cittadinanza", e non come una tutela di classe da contrapporre a contrari interessi di classe. In questa logica ci si è arrampicati sugli specchi per sostenere che un’eventuale estensione della "illicenziabilità senza giusta causa" non avrebbe nuociuto alla competitività delle piccole imprese e del "sistema paese", anzi!, quando invece bisognava cogliere l’occasione per dire chiaramente e francamente che per difendere ed estendere i propri diritti, i lavoratori devono iniziare a prendere decisamente le distanze dal sistema delle imprese e a contrapporsi alle loro esigenze di competitività e concorrenzialità.
Ragionare e propagandare collettivamente simili cose non avrebbe significato perdersi in "inutili elucubrazioni ideologiche", ma gettare le basi per erigere una congrua linea difensiva di fronte ad un’offensiva padronale che -nella sostanza- al di là del risultato referendario, è destinata ad accentuarsi; e sarebbe stato anche il miglior antidoto per inibire al governo di farsi forte di una presunta legittimazione popolare nel caso in cui il "SI" non dovesse uscire vittorioso. Se salvo qualche -sempre possibile- eccezione i "comitati per il si" si sono mantenuti sul più puro terreno elettorale; se si sono operate poche e difficoltose puntate verso il mondo del precariato; e se quasi ovunque i comitati si sono dimostrati organismi esistenti più di nome che di fatto: ciò è stato causato non tanto dalla "scarsa volontà" di chi ne faceva parte (vari bravi compagni e lavoratori hanno profuso molto impegno), ma dalla logica di fondo, tutta elettoralistica, che li ha mossi. Pensare e dire che "di per sé" un’eventuale vittoria elettorale del "SI" determinerebbe un "rovesciamento dei rapporti di forza nel paese" non significa solo illudersi sulla presenza dei ghiacciai perenni all’equatore, vuol dire soprattutto disattrezzarsi per il futuro. In una recente assemblea sindacale a Roma un delegato (non dell’Oci) ha detto: "In un certo senso è più importante come si arriva al referendum che non il suo esito. Forse sarebbe meglio perdere avendo però lavorato ad una mobilitazione dei lavoratori, che vincere senza aver tentato ciò". Se poi neanche si "vincesse"…
Il "tradimento" di Cofferati
Dopo un travaglio degno di un’elefantessa, la Cgil, sia pur giudicando il ricorso al referendum inopportuno, si è schierata per il "SI". La Confederazione di Corso Italia ribadisce che lo strumento migliore per estendere i diritti è quello di una rapida approvazione della sua proposta legislativa (in un parlamento così composto… quando si dice il senso del realismo e della concretezza), ma, visto che proprio si deve votare, ebbene che allora si voti "SI". A spingerla in tale direzione è stato certamente anche l’umore di una buona fetta del suo quadro intermedio di delegati. Ma in quale ottica il passo sia stato compiuto ce lo spiega Epifani con la sua relazione al direttivo confederale: la Cgil dovrà affrontare la campagna rimanendo "determinata e serena, aperta al confronto con l’impresa minore nel nome del comune interesse (sic!) a contrastare la politica del governo e a far crescere nelle piccole e medie imprese qualità e riconoscimento dei diritti e delle tutele per chi lavora".
Forte (si fa per dire) di una simile impostazione, la scesa in campo della Cgil non ha minimamente contribuito ad innalzare il tasso di una reale attivizzazione tra i lavoratori. Intanto nell’area referendaria si è da più parti gridato allo scandalo ed alla delusione per la posizione di aperto boicottaggio (in fondo simile a quelle di Pezzotta) del referendum presa dalla ex star Cofferrati. Nessun tradimento! In realtà Cofferrati si dimostra semplicemente più coerente (certo, in modo fetido) di tanti suoi ex fans. Se infatti l’unica vera prospettiva è la rivincita alle prossime elezioni (e non ci sembra proprio che dai Salvi, Berlinguer, Pecoraro Scanio e Bertinotti venga mossa alcuna obiezione in materia), perché mai immettere elementi di divisione e di difficoltà in un Ulivo che già di per sé stenta a tenersi unito e ad accreditarsi come soluzione credibile agli occhi di chi vive e parassita sul sudore operaio?
Un accordo separato contro il contratto nazionale
Da anni la Confindustria mira a svilire e cancellare i contratti nazionali di categoria: la firma separata al tavolo metalmeccanico segna un notevole scatto in avanti in tal senso. La Fiom ha ragione quando, criticando a fondo l’accordo, afferma che introduce un’enorme precarietà nel mercato del lavoro, che elimina ogni regola nella gestione dei contratti a termine, che dà mano libera alle aziende nella gestione degli orari e degli inquadramenti, che degrada il ruolo del sindacato e che sul versante economico è ampiamente insufficiente. E, giustamente, contro tale contratto è stato proclamato un pacchetto di scioperi che sinora ha qua e là registrato un discreta partecipazione. Il punto è su quali basi politiche vada impostata una mobilitazione che si presenta tutt’altro che facile. Se si accettano i criteri-guida della competitività e delle compatibilità aziendali, allora non solo non si riuscirà a dare una coerente ed efficace continuazione alla lotta, ma si dovrà alla fine prendere atto che Cisl e Uil avevano di fatto "ragione". Il contratto da esse firmato, infatti, pone al centro proprio la maggiore concorrenzialità delle imprese. Sulla pelle dei lavoratori, certo. Ma appunto qui sta il problema: le esigenze delle aziende e la nostra pelle non possono mai andare a braccetto. Quando la Fiom nazionale all’assemblea degli azionisti Fiat del maggio scorso dice: "Vogliamo una Fiat risanata e competitiva che dia occupazione, che produca benessere e sviluppo", compie il più classico dei cortocircuiti. Infatti è proprio per reggere sui mercati internazionali che la Fiat ha avviato la "cura" di tagli all’occupazione. Quanto poi alla cosiddetta "via alta allo sviluppo" che permetterebbe di coniugare interessi padronali con diritti e salari operai, basterebbe andare a chiedere ai lavoratori della new-economy o a quelli del paese più high-tech di tutti (gli Usa) per rendersi conto di quale bubbola si tratti.
Legare la nostra tutela a quella delle imprese significa solo farsi gettare in un vortice senza fine di concorrenza al ribasso con i lavoratori delle altre aziende e degli altri paesi. Significa prestare il fianco alla disgregazione del nostro fronte di classe, mentre noi abbiamo bisogno dell’esatto contrario: del massimo di unità e di estensione della lotta. Per questo sarebbe deleterio se si iniziasse ad ipotizzare che allo "strappo" di Federmeccanica, Cisl e Uil bisogna rispondere puntando a recuperare "fabbrica per fabbrica" quanto perso a livello centrale. Una simile impostazione porterebbe al massimo a ottenere qualcosa a macchia di leopardo e questo "qualcosa" verrebbe amaramente pagato in termini politici con nuove differenziazioni tra lavoratori di imprese e territori che "tirano" e che "non tirano". Certo, per ripartire bisogna fare perno sulle fabbriche che hanno più disponibilità alla lotta ma ci si dovrà da subito indirizzare al coinvolgimento diretto dell’intera categoria e dell’insieme del mondo del lavoro per opporsi unitariamente all’offensiva capitalistica e alla politica governativa.
Il 2002 ha dimostrato che abbiamo un grande potenziale di mobilitazione di massa, ma ha anche detto che tale potenziale da solo non è assolutamente sufficiente. È necessario che esso sia innervato da una politica di classe che rompa per davvero con la logica del rispetto delle compatibilità aziendali e nazionali, e che per tal via indichi una reale prospettiva di unificazione tra "garantiti" e precari, lavoratori del Nord e del Sud, italiani ed immigrati, che marci insomma nella direzione dell’unificazione dell’intero mondo degli sfruttati a scala nazionale e internazionale. Sappiamo benissimo che non basta volere ciò per immediatamente potere ciò, ma sappiamo anche che una battaglia per affermare tale prospettiva deve vivere sin da subito in ogni lotta, sciopero e vertenza.