Donne in prima linea
Chi sono e perché si arruolano le soldatesse Usa esibite come esempio di emancipazione della donna in occidente? Deve nascere, dal bilancio della loro esperienza al servizio della politica di oppressione del loro governo, la spinta ad unirsi e ad organizzarsi con le esperienze di lotta che si sono manifestate nel movimento contro la guerra negli Usa e a riconoscere nelle donne dei popoli aggrediti dall’imperialismo delle sorelle in lotta contro la comune oppressione.
Dalla guerra del ’91 a quella recente scatenata contro l’Iraq l’esercito americano si è avvalso di una sempre maggiore partecipazione femminile. Le donne sono passate dall’11 % delle forze attive militari a circa il 16%. Una serie di riforme avviate dall’amministrazione "democratica" di Clinton hanno fatto sì che circa il 91% delle cariche delle forze armate americane possano essere ricoperte indistintamente da uomini e donne. Questa percentuale sale al 99% in armi come l’aviazione o la marina.
A cosa si deve tanta "apertura"? E perché le donne accettano la generosa offerta?
Gli stati ed i governi imperialisti puntano a conquistare le donne alla "difesa della patria" per rafforzare il fronte interno e a tal fine cercano di far leva sull’aspirazione della donna a ribellarsi all’umiliazione perenne che le deriva dalla subordinazione ed oppressione esistenziale che vive. La "guerra infinita" si presenta così per alcune come l’opportunità di una sistemazione economica dignitosa, sempre più spesso vissuta e patita, nei paesi democratici e "liberi", come un traguardo diversamente irraggiungibile. Non è una novità che nei paesi più industrializzati dell’Occidente i salari delle donne sono inferiori a quelli maschili (con scarti fino al 30%) e negli Usa la discriminazione della donna sul lavoro si unisce, ancora di più che negli altri paesi occidentali, alla discriminazione razziale: le donne nere guadagnano meno di quelle bianche e quelle delle minoranze latine o indiane ancora meno delle nere. È quello che emerge dai destini delle tre soldatesse di cui ci hanno parlato le cronache dei mesi scorsi.
La bianca Jessica Lynch, diciannovenne, svolgeva mansioni di magazziniera. È stato scritto che sognasse di fare la maestra. Liberata dalle forze speciali con un raid da film (poi rivelatosi anch’esso una fiction in piena regola), è stata data in pasto ad un’opinione pubblica americana che cominciava a nutrire qualche dubbio sull’efficienza dell’azione bellica (1). Al ritorno a casa, un villaggio di minatori della West Virginia, due università le hanno offerto di frequentare il college che non si sarebbe mai potuta permettere.
La pellerossa Lori Piestewa, invece, a casa -una casa prefabbricata dello stato dell’Arizona- ci è tornata morta. Aveva 23 anni, era una ragazza madre di due bambini di quattro e tre anni. È stata sepolta nella riserva dei pellirossa Navajo.
La nera Shoshana Nyree Johnson, la cuoca trentenne fatta prigioniera dagli iracheni e poi rilasciata. Il suo viso terrorizzato ha utilmente sostenuto la propaganda di regime sulla ferocia dell’esercito di Saddam.
È evidente che queste donne, queste soldatesse non sono la stessa cosa degli avvoltoi delle multinazionali e dei loro governanti che le mandano ad ammazzare: non hanno trovato di meglio per andare avanti, mantenere la famiglia, avere un salario, potersi permettere di pagare gli studi che arruolarsi nell’esercito. È per questo che non liquidiamo queste proletarie con un semplice "voi siete nostre nemiche" oppure con un "non ce ne frega niente di voi perché come soldatesse siete delle rinnegate del sesso femminile che è portatore di vita."
Noi ci rivolgiamo comunque a loro perché traggano un bilancio di quelle che sono le promesse dei loro governi, di quali macelli umani devono farsi carico e di quale infinita oppressione su altre donne e su altri sfruttati devono farsi strumento illudendosi di poter affermare per questa via la loro sacrosanta voglia di riscatto sociale.
Verso la ricomposizione di classe
Un bilancio quindi, che qua e là già è presente, anche se in modo frammentario, tra le donne "in prima linea" nel movimento contro la guerra. Un esempio per tutti è stata la partecipazione, a Boston, in una delle più grandi manifestazioni dai tempi del Vietnam, di tantissime famiglie e donne di militari impiegati in Iraq che hanno manifestato al grido: " Nostro figlio è un marine. Ferma la guerra di Bush per il petrolio e per l’impero"; "Soldi per il lavoro e l’istruzione, no alla guerra e all’occupazione".
A queste prime crepe nel fronte interno statunitense ha contribuito anche la resistenza condotta dagli sfruttati arabo-islamici, uomini e donne, con ogni mezzo possibile contro la forza militare -e non solo- dell’imperialismo. Anche contro questa accanita resistenza si è scatenata la propaganda imperialista, che ha mirato a contrapporre -come già durante l’aggressione all’Afghanistan- il fortunato destino delle donne occidentali, le porte aperte ai sogni di Jessica, Lori e Shoshana alla grama condizione di abbrutimento, arretratezza, fanatismo delle donne islamiche, di cui la partecipazione alle azioni militari, e dunque anche agli attacchi suicidi, sarebbe un chiaro sintomo. Queste azioni invece, quand’anche non guidate dal nostro ideale, sono una chiara espressione della determinazione anche da parte delle donne a non piegarsi all’imperialismo e a combatterlo con ogni mezzo. Come possa e debba svilupparsi la partecipazione femminile alla generale resistenza antimperialista in Medioriente, sotto quali bandiere essa possa veramente dare il suo pieno contributo è una questione cruciale che merita di essere approfondita nei futuri numeri del giornale (2). Fin d’ora però respingiamo questa velenosa propaganda, ben sapendo quale radioso destino gli eserciti "liberatori" abbiano portato ai popoli liberati e in particolare alle donne. Essa mira non solo a mantenere profondo il fossato esistente tra le donne del nord e quelle del sud del mondo, ma a preparare il terreno ad uno dei prossimi passi della "guerra infinita": l’attacco all’Iran, nel quale ancora una volta l’Occidente sarebbe chiamato a liberare le donne dal "cerchio" del regime khomeinista.
Questa campagna può essere respinta evidenziando quanto sia falsa la pretesa emancipazione di Jessica, Lori e Shoshana, e quanto reale la loro condizione di donne proletarie, oppresse anche nella concessa libertà di divenire carne da macello a favore dell’imperialismo. A tal fine è necessario rivolgere la propaganda anti-militarista anche alle proletarie in divisa, come la nostra organizzazione ha cominciato a fare durante la guerra contro la Jugoslavia nel 1999, quando abbiamo diffuso un manifesto ai soldati statunitensi che riproduciamo nel riquadro in basso. Dare il nostro sostegno incondizionato (che non vuol dire acritico) all’iniziale ripresa della lotta delle donne in Occidente, che ha permesso loro di iniziare ad avvicinarsi alla lotta e alla resistenza degli sfruttati e delle donne del sud del mondo, alle ragioni di chi resiste dall’"altra parte del mondo". È quello che è accaduto a Londra quando alcune associazioni femministe hanno protestato insieme alle donne islamiche contro il concorso di "miss mondo" "che è una vergogna non solo in Nigeria ma anche a Londra". È quello che è accaduto per la statunitense Rachel Corrie: giovane studentessa, attivista del movimento "no-global" negli Usa, aveva deciso di partecipare ad alcune azioni di solidarietà con il popolo palestinese. Arrivata "in prima linea", Corrie aveva iniziato a capire le ragioni degli sfruttati, a non criminalizzare la loro resistenza e i modi in cui questa si dà. "E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco. Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po’ più violenti per proteggere i frammenti che ci restano. … penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna lo farebbe. E penso che lo farei anch’io." Così scriveva ai suoi genitori, pochi giorni prima di essere schiacciata da un bulldozer israeliano.
L’unica via per la libertà e l’emancipazione delle donne è quella della lotta contro la propria oppressione, contro la politica imperialista del proprio governo, per battere le divisioni di sesso, di razza, e di classe e stringerci in un unico fronte con la resistenza e la lotta delle nostre sorelle del sud del mondo!
Note
1) Marco D’Eramo, nell’articolo del manifesto "La verità sulla soldata Jessica" del 27 maggio ha dato un’efficace e documentata ricostruzione della vicenda.
2 ) La questione è già stata affrontata sulla nostra stampa nell’articolo "Donne e islam" (che fare n. 41) e nell’opuscoletto "Burqa, aggressione imperialista, liberazione della donna" che si possono scaricare dal nostro sito o chiedere alle nostre sedi.