Il coro dei titoli dei giornali è stato unanime: "Cuba, il mito tramontato","Cuba, tutti i crimini nell’isola del terrore rosso", "Cuba, la tessera a punti che compra il consenso" (1).

"Questa volta" l’Europa non si è tirata indietro.

"È ora di finirla con questa anomalia", dicono tutti, soprattutto in un momento in cui tutta l’area latino-americana ribolle come non mai.

Come in Medio Oriente bisogna dare una punizione esemplare, bisogna scatenare il terrore fra le masse lavoratrici.

Toccherà Cuba per prima?

Cuba:

chi fa male a chi

Altro che mito! Cuba è tutt’ora esempio vivo della resistenza per tutti i popoli dell’area. Si è provato a liquidarla in passato, invano. Oggi diventa più urgente farlo, ma l’impresa è anche più difficile.

È più difficile perché c’è maggior protagonismo delle masse sfruttate non tanto a Cuba quanto nell’intero continente: in Venezuela, dove milioni di diseredati sostengono Chavez al grido "con o senza Chavez la nostra lotta la porteremo avanti"; in Argentina e in Brasile; in Bolivia, dove vi sono state sollevazioni contro l’attacco ai salari e alle condizioni di vita e contro lo stato d’assedio proclamato dal governo; in Colombia, dove non bastano più "consiglieri" e "istruttori" militari targati Cia e dove col Plan Colombia si è passati, molti non lo sanno, ad un’occupazione militare (a proposito di "diritti violati") con decine di migliaia di marines per affrontare la sollevazione proletaria e contadina e porre le basi per un intervento in tutto il Sud America.

È più difficile dopo Seattle e da quando, negli Usa, nelle manifestazioni contro la politica statunitense si affacciano i lavoratori immigrati di origine ispanica, che sono milioni. Più difficile dopo le Porto Alegre di piazza, la cui ultima edizione non ufficiale ha accolto Fidel Castro, al contrario di quella ufficiale che l’ha respinto. Rispetto al 1991 poi, quando si manifestò solo in Messico, quest’anno le iniziative contro l’aggressione all’Iraq sono state massicce in quasi tutti i paesi dell’area.

È più difficile, insomma per gli Usa pacificare l’area, ma proprio per questo più urgente. L’Europa è chiamata a fare la sua parte. Le illusioni di un vecchio continente "diverso" dagli Usa fanno i conti oggi con lo smarcamento di essa dal "sostegno" a Fidel Castro, come già avvenuto per Arafat, non abbastanza moderato e pompiere. I vari Schroeder, Berlusconi, Chirac, Aznar stanno premendo sull’acceleratore dei ricatti e delle pressioni, organizzando (come fanno gli Usa) manifestazioni contro Cuba. Gli Usa e l’Europa stanno inoltre facendo da levatrici ad un’opposizione interna: con il finanziamento di gruppi armati (che compiono decine e decine di attentati e fanno opera di sabotaggio politico e diplomatico); con la capillare attività della Chiesa a favore dell’opposizione anticastrista; con le iniziative della socialdemocrazia e dei partiti della "sinistra" europea. Fassino ha detto: "dobbiamo mettere in campo ogni forma di pressione [vedi embargo all’Iraq o bombardamenti alla Jugoslavia, n.] per la liberazione dei carcerati e il riconoscimento delle libertà (2)." I vertici dei Ds non nascondono di agire dentro Cuba per cambiarne (cioè sovvertirne) il tipo di governo (pensate cosa farebbero gli stati imperialisti se Cuba facesse la stessa cosa in Europa o negli Usa).

Davanti a queste minacce, anche su Liberazione e sul manifesto ci si è premurati innanzitutto di condannare le esecuzioni a Cuba. Persino Edoardo Galeano, che nei suoi testi ha mostrato come per 500 anni, giorno dopo giorno, da Cristoforo Colombo alla Cia, passando per Lincoln e Napoleone, dalle Antille alla Patagonia, il "vecchio" e il "nuovo" capitalismo per la sete di profitto ha massacrato, rapinato, stuprato, sfruttato, deportato, succhiato il sangue a milioni di indios, africani, e poi latino americani, persino lui ci viene a dire che "Cuba ci fa male".

Fa male a chi? Al proletariato occidentale? Alle masse diseredate dei tre continenti oppressi? O ai "comunisti" cresciuti e pasciuti fra i miti, questi sì, della democrazia imperialista e dei suoi "diritti umani" a senso unico? Bisogna forse ricordare a Galeano cosa fa tutt’ora questa democrazia ai nove decimi dell’umanità? È la stessa democrazia che si scandalizza per le regole violate dai piqueteros argentini, dai tanti Carlo Giuliani nostrani e statunitensi, dai "barbari" palestinesi e mediorientali e persino, ormai, dai lavoratori che bloccano binari e strade per difendere lavoro e diritti.

Anche la Fiom, pur impegnata nel movimento "no-global", ha puntato il dito contro Cuba "anti-democratica", non vedendo o non volendo vedere che il dito oggi puntato contro i lavoratori in Italia è della stessa mano che mette Cuba alla gogna (3). La critica da "sinistra" più raffinata tuttavia è stata espressa da quei dirigenti "no global" per i quali vanno prese nettamente le distanze dagli atti di Cuba perché con tali atti non ci si difende, ma ci si isola. Eh sì, meglio farsi aggredire con le mani alzate come a Genova! I popoli del Terzo Mondo, a Cuba o in Palestina, sono belli e buoni ("poverini"...) quando si lasciano torchiare inermi o finché si limitano a tirar pietre... Quando rispondono alla violenza dell’imperialismo con la propria violenza, quella vera, quella che blocca o rallenta i piani di oppressione, allora… se ne prendono le distanze, allora sono da condannare. Pietro Ingrao, dal canto suo, ha titolato il suo articolo "Le prigioni di Cuba" (4) e si stupisce che a "quarant’anni dai giorni dell’insurrezione armata e dell’emergenza rivoluzionaria" vi siano esecuzioni. Ci sorgono spontanee alcune domande. La popolazione di quel piccolo paese non è forse sotto perenne attacco ed embargo? La difesa del condannato di cui parla Ingrao contempla la difesa di un intero popolo condannato dall’Occidente alla reclusione, alla morsa affamatrice, all’oppressione, all’asfissia economica e sociale? Non ci sembra. Di quali strade "nuove e diverse", di quale pacifismo, se non quello del disarmo completo e della genuflessione della popolazione cubana, ci parla Pietro Ingrao? Come mai non si dice una parola sull’Europa pronta a pugnalare, non alle spalle, ma al petto, l’intero continente latino americano come è già successo per l’Argentina?

Così facendo si amplificano le distanze politiche fra il proletariato occidentale e le masse e i lavoratori del sud del mondo. Si tace il luogo dove regna il vero dominio politico economico e militare, non si nominano i soggetti della reale dittatura mondiale del capitale. Si svuota il sentimento di classe, che diventa come un sacco vuoto in cui si mettono altre parole d’ordine, altre analisi, altri punti di riferimento, quelli della democrazia, della libertà, dei diritti umani dei "singoli", anche se dietro questi "singoli" vi è la forza degli Stati Uniti d’America con l’obiettivo di contribuire a destabilizzare per poi asservire ancora di più paesi e interi continenti.

Il nostro metodo è opposto, perché opposte sono le finalità. Sosteniamo incondizionatamente la lotta delle masse lavoratrici cubane e latinoamericane. Denunciamo la politica di aggressione da parte dell’imperialismo occidentale tutto e di quello di casa nostra per primo. Non per questo non critichiamo la politica dello stato cubano e delle sue dirigenze. Le nostre critiche sono però opposte a quelle fatte da certi ambienti di "sinistra", e spingono la classe operaia, unico soggetto che ha la forza di catalizzare anche le masse diseredate e contadine, ad agire in prima persona per organizzare una difesa coerente, a non delegarla allo stato, a guardare in faccia al pericolo di un’implosione (come già accaduto nel 1989-’90 nei paesi ex-"socialisti") che è il grande risultato a cui mira l’attuale manovra imperialista.

Oggi il "pueblo revolucionario" di Cuba è chiamato a riaffrontare i problemi della dipendenza e del sottosviluppo che aggredì alla fine degli anni cinquanta, quando la sua lotta cacciò il regime semi-coloniale di Batista. La soluzione trovata nei decenni scorsi, e cioè l’inserimento dell’isola nell’ex blocco "socialista" al terribile prezzo di congelare e svuotare la maturazione rivoluzionaria internazionalista delle masse lavoratrici cubane, si è rivelata un non-soluzione. La difesa dall’accerchiamento dell’Occidente capitalista richiede, né più né meno, il rilancio dell’iniziativa di massa, sul piano interno e su quello internazionale, con l’obiettivo di sbaraccare l’intero sistema imperialista. Cominciando dalla costruzione di una battaglia continentale per dire basta al pagamento del debito estero a Cuba e nel resto dell’America Latina.

Va quindi superato l’impasse in cui ha condotto la politica di Castro, che vuol sì resistere all’imperialismo ma in un modo che spinge i proletari (soprattutto i più giovani e quelli impiegati nel sempre più ampio settore dollarizzato dell’economia cubana) ad abboccare all’amo della propaganda dell’Occidente. O si rilancia la grandiosa prospettiva della rivoluzione socialista internazionale e la resistenza a Cuba diventa una delle piazzeforti di questa battaglia, oppure c’è il rischio a Cuba di un 1989 ritardato.

Certo, siamo ben consapevoli che la politica per cui ci battiamo e chiamiamo a battersi potrebbe non essere in grado, nell’attuale situazione internazionale, di respingere l’aggressione imperialista a Cuba. L’alternativa però sarebbe una sicura degenerazione, un collasso introiettato. E questo è il pericolo maggiore, quello a cui stanno dando il loro contributo i dirigenti della sinistra nostrana e del movimento "no-global".


(1) Il sole 24 ore del 19 aprile, Libero del 17 aprile, La repubblica del 5 maggio.

(2) Sappiamo di quali libertà parla Fassino: le stesse del centro destra tant’è che Gustavo Selva di An, durante il dibattito parlamentare, ha richiamato i suoi ad esser più accorti su Cuba poiché " esiste un largo consenso, e non da oggi, delle forze politiche italiane ed è sciocco indebolirlo con politiche strumentali" ("L’Unità" del 30.4.03).

(3) Il fogliaccio della Confindustria ha per esempio scritto: "Cuba il mito tramontato" (19 aprile) e sull’articolo 18 ha sentenziato: "Se cadono i totem" (l’8 maggio).

(4) Il manifesto del 16 aprile