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“Porgiamo una mano a tutti coloro che nel mondo soffrono a causa delle politiche statunitensi...”
C’è una notizia di grande importanza che non "buca", però, i muri blindati dell’"informazione" di regime, ed è spesso minimizzata anche in quella dell’estrema sinistra: davanti alla guerra incombente la società statunitense è politicamente spaccata, con un variegato movimento anti-guerra che dai giorni successivi all’11 settembre 2001 non ha fatto altro che guadagnare forze e consensi. |
Si tratta di una sorpresa, ma solo per quanti continuano ad ignorare che gli Stati Uniti sono sempre di più socialmente spaccati per effetto di una polarizzazione di classe che viene "da lontano".
Sotto l’impulso della crisi di metà anni ‘70, il reaganismo prima ed il clintonismo poi, seppur in modo meno brutale, hanno operato una redistribuzione della "ricchezza sociale" sperequata e sperequante, che ha accresciuto le distanze economiche, di potere e psicologiche tra le classi sociali antagoniste. Il vivere ed il sentire dei ricchi, della classe alto-borghese e delle sue istituzioni, si è andato allontanando in modo siderale dal vivere e dal sentire non solo dei "working poor", le proletarie (1) e i proletari che soffrono la povertà pur lavorando, ma di una massa in espansione di salariati, anche di ceto medio, che "lavorano come muli e sono trattati come cani".
Si spiega innanzitutto così l’attuale divisione di sentimenti, di pareri, di posizioni organizzate intorno all’aggressione all’Iraq, talmente chiara, nonostante l’oscuramento dei massmedia "che contano" (2), da far scrivere: "Mai, dagli anni della guerra in Vietnam, gli americani sono stati altrettanto divisi. In parlamento l’opposizione [democratica -n.] è allo sbando, ma nelle piazze cresce una rivolta che scavalca i partiti e potrebbe avere uno sbocco violento se non troverà un canale istituzionale." (l’Unità, 18 gennaio 2003).
In questa foto c’è un po’ di esagerazione interessata (interessata a suonar la sveglia ai "canali istituzionali" perché si diano da fare a "recuperare" il movimento). Tuttavia è un fatto che questa volta, a differenza che per il Vietnam e per la "guerra del Golfo" del 1991, l’opposizione alla guerra è partita prima che cadessero le bombe; che in questo movimento, più diffuso, articolato e "spontaneo" di quelli precedenti, i democratici ed il Green Party di R. Nader contano quasi nulla; che, finora almeno, vi ha avuto una influenza rilevante una nuova coalizione quale International ANSWER (acronimo che sta per "Agire ora contro la guerra e il razzismo"), al cui interno il raggruppamento più attivo, il Workers World Party (di matrice "trotskista"), non è certo una forza istituzionale; che sebbene buona parte degli attivisti appartengano ancora alla middle class bianca (radical) e alla gioventù studentesca anch’essa bianca, vi è tuttavia un coinvolgimento via via più ampio, sebbene inadeguato, di neri e chicanos, di (ancora sparuti, però) gruppi di immigrati arabo-islamici e, soprattutto, di lavoratori sindacalizzati. Insieme alla fortissima presenza femminile (una presenza con delle magnifiche punte di lucidità, come nel caso del The Women of Color Resource Center), ed al contingente sempre più organizzato e combattivo dei "veterani di guerra", la novità più rilevante rispetto agli anni ’60 è costituita, forse, proprio dal coinvolgimento di molte strutture sindacali.
Una novità rilevante perché, a far data dagli anni ’40, se non prima, grazie all’indiscusso primato statunitense nel mercato mondiale e ai privilegi che esso potè assicurare a gran parte della stessa classe operaia, l’Afl-Cio, il massimo sindacato statunitense, è stato uno dei pilastri dello sciovinismo a stellestrisce, segnalandosi sempre per il convinto sostegno alle guerre ed alle macchinazioni reazionarie yankee in tutto il mondo. Questa volta, però, sta andando diversamente dalla (pessima) "tradizione".
Per merito, inizialmente, del coraggioso New York City Labor Against the War (un organismo nato dopo l’11 settembre nel pieno della ributtante rettorica "anti-terroristica" di stampo bellicista e razzista), del King County Labor Council di Seattle (uno dei maggiori protagonisti, misconosciuti, della protesta del novembre 1999), del San Francisco Labor Council (capace di belle prese di posizione e di una forte capacità organizzativa), si è venuta passo dopo passo formando una corposa tendenza "pacifista" all’interno del primo sindacato degli Stati Uniti, che comprende ormai strutture (federali, statali, regionali e distrettuali, oltre che comitati ed organismi creati ad hoc) rappresentative di circa 4 milioni e mezzo di lavoratori, pari ad un quarto di tutti i sindacalizzati.
Questa tendenza non è omogenea, poiché al suo interno vi è chi critica soltanto l’"unilateralismo" di Bush e conserva fiducia nell’Onu e nei suoi (Iddio li fulmini!) cercatori di prove; chi è per il "disarmo di Saddam" con mezzi "pacifici" (secondo la logica della coalizione Win Without War, Vincere senza la guerra, che non è nata però in ambito sindacale); chi dice no alla guerra solo perché essa sposta risorse materiali dalle voci "sociali" del bilancio statale a quelle militari; chi vede, o almeno intravvede, il legame tra le aggressioni esterne dell’amministrazione Bush e l’aggressione interna ai diritti ed alle libertà dei lavoratori e dei cittadini comuni (in diverse prese di posizione è attaccato il Patriot Act); e chi, per ora una sparuta minoranza, rifiuta sia la "guerra preventiva" all’Iraq che l’intera "guerra al terrorismo", e si espone fino a chiedere apertamente l’immediato rilascio delle centinaia di immigrati arabi, mediorientali e di altre nazionalità arrestati e detenuti senza processo nei giorni successivi all’11 settembre, tendendo in questo modo una mano fraterna ai presunti nemici (è il caso del Washington State Labor Council, una delle più forti strutture dell’Afl-Cio impegnate nel no alla guerra). Ma al di là di questa eterogeneità, resta il fatto nuovo ed altamente incoraggiante di un sentimento anti-guerra crescente nel seno del proletariato americano, sempre più organizzato in un embrione di vera e propria opposizione dei lavoratori statunitensi ai piani di guerra di Bush&C., come testimoniano le prime riunioni nazionali volte a coordinare tutti gli organismi sindacali impegnati in questo senso.
È difficile sovrastimare l’importanza, oggettiva innanzitutto, di questo movimento "anti-guerra" statunitense che sta prendendo piede nel paese-epicentro dell’imperialismo mondiale. Un movimento che dall’autunno dello scorso anno ad oggi ha coinvolto centinaia di migliaia di dimostranti nelle due giornate nazionali di mobilitazione (del 26 ottobre e del 18 gennaio) e in una vera e propria miriade di iniziative "locali", supportate da una rete di comitati permanenti. Un movimento che si sforza fin dal suo avvio di darsi una dimensione mondiale, e che ha voluto e saputo stabilire larghi collegamenti internazionali (il 18 gennaio, su iniziativa di ANSWER, si è manifestato in 40 paesi, e per la prima volta si è marciato contemporaneamente contro la guerra negli Stati Uniti e in diversi paesi arabo-islamici come la Siria, il Marocco, il Libano, il Pakistan, il Bahrein…). Un movimento che ha saputo proiettarsi verso Porto Alegre e ha accettato di buon grado di scendere di nuovo in piazza all’unisono con le piazze europee il 15 febbraio. Un movimento al quale, non a caso, guardano con speranza anche gli iracheni e gli arabi (pur se un Ben Bella ottuagenario ma ancora sveglio gli ha chiesto, giustamente, dal Cairo di fare di più, molto di più). Un movimento nel cui seno e sotto il cui pungolo cominciano a emergere denunzie davvero radicali dei crimini yankee oltre che contro l’Iraq, contro la Palestina, l’Afghanistan, la Colombia, etc. (quelle denunzie che è così raro sentire qui da noi in Europa contro i crimini passati e presenti degli imperialismi europei) e prime vigorose prese di posizione di classe, come si può vedere nella documentazione della pagina seguente.
Difficili prove attendono questo movimento, i suoi organismi, le sue avanguardie. Prove nelle quali esso sarà sfidato a superare sé stesso.
Con l’approssimarsi del momento in cui scatterà la nuova aggressione all’Iraq, infatti, gli arriveranno addosso sempre più violente accuse di anti-patriottismo, intelligenza con il nemico, estremismo, filo-comunismo, tutti temi che, purtroppo, fanno ancora vibrare le corde degli americani medi, anche di quelli di sentimenti pacifisti. Per il momento l’attacco (per ora solo ad un livello propagandistico) è concentrato sul ruolo che hanno in ANSWER il Workers World Party e in NION (Not in Our Name) il Revolutionary Communist Party (una formazione maoista), così come lo fu a Seattle e a Genova sul ruolo (vero o presunto) dei Black Bloc. Il bersaglio ultimo, però, è il movimento stesso, come sembra aver inteso la gran parte dei membri attivi di esso.
Un’insidia non minore, poi, risiede nello sforzo di settori vicini alle forze istituzionali (il partito democratico in primis) di mettere in piedi un secondo, e alternativo, movimento "contro la guerra" intorno alla coalizione più moderata United for Peace and Justice, che è il referente statunitense del Social Forum europeo; la quale dimostra, però, una assai più limitata capacità di mobilitazione, tant’è che per la stessa organizzazione del 15 febbraio questa coalizione ha dovuto chiedere la piena collaborazione della "settaria" ANSWER, che gliel’ha accordata di buon grado. Ma per entrambe queste componenti si porrà quanto prima il compito di contrare anche l’inevitabile stretta repressiva che si accompagnerà allo scoppio della guerra, ed è lecito chiedersi quanto lo stesso settore più militante del movimento sia preparato a questa svolta.
Esso è infatti tuttora impregnato di fiducia nella democrazia e nel metodo democratico. Anzi, come ha scritto una nostra corrispondente dagli Stati Uniti in un testo che potrete trovare sul nostro sito, questo movimento si illude di essere la democrazia stessa di contro alla ipocrisia e all’arroganza "non democratica" di Bush. E benché sia contro questa guerra, non ha, nella sua maggioranza, alcuna consapevolezza del fatto che questa guerra, e tanto più la "guerra infinita", affondano le loro radici non in capricciose decisioni di un singolo "cow boy" (massacratore) o di un semplice pool di avidi petrolieri, ma nel sistema dell’economia di mercato capitalistica. Ed è inoltre tuttora lontano dall’aver compreso che con l’apparato totalitario di violenza e di sfruttamento (la democrazia imperialista, appunto) di cui il proprio governo è a capo non ci si potrà confrontare solo con cartelli di protesta, palloncini, petizioni, e richiesta di rispetto delle "vecchie" regole.
Questa sua "inadeguata politicizzazione" rispecchia "la mancanza da lungo tempo di una coscienza di classe organizzata", di un movimento di classe degno di tal nome, di un partito di classe capace di inquadrare a pieno il campo, la natura, le implicazioni dello scontro in atto e di avere un piano di azione per vincerlo. Una mancanza che non è di certo solo statunitense, ma che forse negli Stati Uniti si fa sentire di più, anche per le profondissime radici che vi ha messo l’individualismo iper-competitivo.
Nondimeno il conflitto sociale e politico negli Stati Uniti è, con la nascita di questo movimento anti-guerra, ancora più aperto e onnilaterale di prima. Non eravamo dei visionari gonfia-palloni quando, negli anni ’80, nell’indifferenza generale, ci azzardammo a dire: la classe operaia degli Stati Uniti "sta reimparando a lottare"; né lo siamo stati negli anni seguenti quando ci siamo sforzati di decifrare e riconoscere valore ai segnali provenienti da una certa riorganizzazione dal basso del sindacato (legata anche a alcuni acuti conflitti aziendali, v. Ups), dalle grandi manifestazioni dei neri (ancorché sotto le insegne, a noi discare, della Nation of Islam di Farrakhan), dalla protesta sotto il Pentagono contro la guerra alla Jugoslavia (di cui solo il nostro giornale diede conto), dalla Marcia mondiale delle donne nel 2000, dal movimento contro i "sweat shops" e così via. Semplicemente scrutavamo con fiducia, anche nei "lontani" e decisivi Usa, quella ripresa di classe a livello internazionale da cui solo può venire l’impulso alla riorganizzazione della classe, e dunque anche la stessa possibilità di colmare quei ritardi che anche il movimento statunitense contro la guerra oggi accusa rispetto al salto di qualità dell’attacco capitalistico.
Questa possibilità è oggi maggiore di ieri proprio grazie alle lotte che ci sono state e ci sono, e alla vitalità di un movimento anti-guerra che ha ormai un’esistenza reale e quotidiana, e può alimentarsi dello sviluppo embrionalmente mondiale del movimento anti-guerra, che esso stesso ha incoraggiato. Il deterioramento delle condizioni di vita di tanti lavoratori che porterà con sé il dirottamento di grandi risorse verso la guerra, la resistenza degli aggrediti con i prevedibili lutti per parecchie famiglie statunitensi, getteranno altra benzina sul fuoco in un ambiente sociale che è già carico di scintille.
Scrutate attentamente l’America, ragazzi! Non poche belle notizie e lezioni ci arriveranno da lì. E voi, avanguardie statunitensi, di cui tanto apprezziamo il coraggio, fate in modo che nei fuochi a venire si bruci anche un po’ di fiducia nella democrazia imperialista, un po’ di malsano patriottismo e si rinsaldi invece il legame tra i bianchi, i neri, i chicanos e gl’immigrati islamici. Fate in modo che il movimento continui ad allargarsi ed a radicarsi nella massa dei lavoratori, fate in modo di completare tutte le arcate di quel magnifico ponte transcontinentale verso i popoli aggrediti dal vostro (e dal nostro) stato che avete cominciato a costruire.
Note
(1) Di cui ha parlato la Ehrenreich nel libro Una paga da fame (Feltrinelli), del quale consigliamo vivamente la lettura.
(2) E che evidentemente non contano così tanto come certe "logiche" foucaultiane e amanti della politica-"spettacolo" vorrebbero farci credere.