Lo sciopero del 21 febbraio e oltre

L'attacco governativo e padronale è ripreso.

Come possiamo respingerlo?

Dopo anni di crescita occupazionale, pur se precaria, gli ultimi mesi dello scorso anno hanno visto il ritorno dei licenziamenti. Molti lavoratori sentono giustamente che non si tratta, diversamente dall'inizio degli anni `90, di una "fisiologica" congiuntura negativa. I tagli occupazionali sono legati, a partire da quelli alla Fiat, al brusco salto all'indietro che sta conoscendo l'apparato industriale italiano. E lasciano intravvedere (se considerati insieme al varo del pacchetto Maroni, al rilancio della delega 848-bis sull'art. 18, alla volontà confindustriale di stracciare il contratto nazionale) il futuro pesante che il governo e il padronato intendono riservare alla classe lavoratrice

Come mai l'attacco sta ripartendo così duramente?

Innanzitutto, perché anche la borghesia italiana è stretta dalla morsa della globalizzazione capitalistica (1). Che non si limita più a far colare a picco "paesi emergenti" come la Jugoslavia, la Corea del Sud e l'Argentina e arriva ormai a tagliare le ali a un "paese già emerso, già entrato a far parte di quel pugno di stati che partecipano alla divisione degli introiti derivanti dal saccheggio del lavoro mondiale. Le modalità concrete in cui andrà avanti il "declino" dell'Italia, comprese quelle legate ad una sempre possibile dinamica jugoslava, dipendono da una serie di fattori internazionali, al momento non ancora ben definiti. E' del tutto certo, però, che la borghesia italiana sta cercando  e cercherà di scaricare tale declino sui lavoratori.

La rete di piccole e medie imprese organizzate per distretti territoriali in attrito reciproco e collocate soprattutto nei settori maturi su cui sempre più è costretto a basarsi il capitalismo italiano, lavorerà per le grandi imprese occidentali in concorrenza con quei paesi (ex) emergenti in grado di offrire manodopera qualificata a prezzi stracciati. Avrà quindi bisogno, per essere competitiva, di disporre di manodopera altrettanto precarizzata, sfruttata, sottopagata. Avrà bisogno di generalizzare il destino di sfruttamento duro e di incertezza che è già oggi pane quotidiano per molti giovani proletari e, in misura ancor maggiore, per gli immigrati.

A tal fine, avrà bisogno di cambiare il "sistema di relazioni industriali", di colpire gli organismi sindacali non completamente compiacenti, di frantumare la contrattazione. Il patto per l'Italia, l'introduzione dei comitati misti aziende-sindacati, gli accordi separati nella vertenza Fiat e in quella contrattuale metalmeccanica, le schedature dei delegati e degli iscritti Cgil, le incriminazioni verso gli attivisti sindacali dei Cobas o i lavoratori delle pulizie delle ferrovie sono altrettante anticipazioni di quello che il declino dell'Italia sta per offrire agli sfruttati.

Il problema per i lavoratori, allora, è quello di attrezzarsi a rispondere a quest'offensiva, che procede insieme, causa ed effetto allo stesso tempo, con l'aggressione militare esterna contro le masse lavoratrici arabo-islamiche.

La risposta della Cgil: "via alta allo sviluppo"...

Ancora una volta l'unica organizzazione sindacale con una larga base di massa che, isolata da Cisl e Uil, intenda farvi fronte è la Cgil. Essa propone alcune mobilitazioni, a partire dallo sciopero dell'industria e dell'artigianato del 21 febbraio, per sollecitare il governo e il padronato a rilanciare lo sviluppo dell'industria italiana lungo una "via alta" alla competizione. In questo modo, affermano i dirigenti Cgil, sarebbe possibile fermare il declino delle condizioni di esistenza della classe lavoratrice e creare la base economica per far uscire molti lavoratori, soprattutto giovani, dalla precarietà e dalla mancanza di tutele sindacali.

Lungi da noi disconoscere la necessità, anzi la estrema urgenza, di una risposta di lotta all'attacco in corso, qualunque ne sia -arriviamo a dire- la piattaforma rivendicativa. Pertanto salutiamo con favore questi nuovi richiami alla ripresa dell'iniziativa del proletariato dopo lo stop, improvvido e controproducente, per noi, succeduto al 18 ottobre. Ma proprio perché, come i lavoratori più avanzati, desideriamo dare il nostro contributo all'organizzazione di quella efficace difesa di classe che ci è molto mancata negli scorsi anni, non possiamo tacere per il solo fatto che la Cgil è isolata e sotto attacco da parte del governo che, dal nostro punto di vista, tanto i contenuti e la "filosofia" della proposta della Cgil, quanto i metodi di lotta che essa ci prospetta non ci convincono affatto.

Partiamo dai contenuti.

Nella dichiarazione con cui la direzione della Cgil chiama allo sciopero del 21 febbraio, è scritto che le condizioni proletarie possono essere adeguatamente difese se ci si batte per uno sviluppo di qualità del Nord e del Sud, facendo leva su ricerca, innovazione, formazione, infrastrutture, suolo della pubblica amministrazione. Non staremo qui a discutere se questo modo di vedere sia o meno condiviso da grandi masse di lavoratori, educati dal capitalismo innanzitutto e poi dal "riformismo" a vedere sé stessi come una variabile dipendente dalle sorti del " proprio" capitalismo, della "propria" nazione, della "propria" azienda. Lo diamo per scontato. Ciò che qui vogliamo discutere è se la via maestra che la Cgil propone alla classe lavoratrice per difendere e migliorare la propria condizione sia o no adeguata a conseguire gli obiettivi che si prefigge. E la risposta è, per noi, negativa.

Innanzitutto, ci sembra assai discutibile l'equazione tra la cosiddetta via "alta" allo sviluppo e alla competitività e l'incremento dei diritti, dei salari e della stabilità dell'occupazione per i proletari. Il paese in testa a tutti, sotto questo profilo, sono senz'alcun dubbio gli Stati Uniti, presi a modello da Berlusconi: ebbene non è sufficientemente noto quale devastazione vi abbia avuto lì negli ultimi vent'anni la condizione dei salariati? E in Germania o in Francia o nei paesi scandinavi che quella stessa via perseguono con alcuni correttivi "sociali", sta forse accadendo ai lavoratori qualcosa di diverso? Si vedono dei miglioramenti in atto all'orizzonte? La via "alta" allo sviluppo della Volkswagen (vedi p. 11) cosa sta offrendo ai lavoratori? E ancora: siamo noi ad avere le allucinazioni, oppure anche le aziende della new economy, esempio per eccellenza di "alto sviluppo", stanno riducendo l'occupazione ed esigono precarietà, flessibilità e bassi salari (a parte per un settore ultraminoritario di mansioni specializzate)?

E poi, secondo: la proposta della Cgil presuppone, magari tacitamente ma non troppo, una divisione internazionale del lavoro, in cui ci siano dei paesi (quelli europei e occidentali) a concorrenza "alta" e diritti garantiti (sulla carta, almeno), e molti altri paesi a concorrenza "bassa", del tutto senza o con pochi diritti per i lavoratori. Ora: come si potrebbe garantire la sopravvivenza di questa divisione del lavoro davanti alle inevitabili lotte e rivolte delle masse super-sfruttate su cui essa grava? In modo diverso da come accade oggi, con le politiche usurarie delle banche e del Fmi, e quando ciò non basti con gli embarghi e le aggressioni militari? Proprio in questi giorni la Cgil pronuncia il suo "no alla guerra", ma la piena riconferma di questa divisione internazionale del lavoro, che il suo piano prevede, non fa che comportare -come stiamo vedendo, e se ne sia consapevoli o meno per noi non cambia nulla- il moltiplicarsi delle guerre, e non soltanto l'intensificazione della concorrenza. Come la mettiamo, allora?

Sicché, ammesso anche, in via di ipotesi assai benevola, che la via "alta" alla competizione potesse offrire qualche sconto all'attacco contro i lavoratori in Italia, lo potrebbe fare solo e soltanto al prezzo della frantumazione (all'americana) e dell'irregimentazione (idem) del proletariato italiano dietro una politica imperialistica. Ma su questa strada che, ripetiamo, non può non contemplare il crescente ricorso alla guerra, ben più coerente della Cgil (e dell'Ulivo rigenerato che ne dovrebbe assumere il programma) può essere la destra di Berluska o quella ad impronta "sociale" ancora in fase di incubazione. Ora, può mai essere una prospettiva del genere, per i lavoratori, la via d'uscita dalle difficoltà del presente?

... sostenuta con semplici azioni di pressione

Ma la proposta della Cgil non ci convince neppure per quel che riguarda le forme di mobilitazione e di lotta. Essa si pone sulla scia delle iniziative dello scorso anno, dal 23 marzo in poi, e del metodo di azione che vi ha presieduto; anzi, proprio perché si rivolge esplicitamente alla classe capitalistica nella speranza, quanto mai illusoria, di "convincerla" e "coinvolgerla", non può non accentuare il carattere di "pressione" più che di aperto scontro di classe delle stesse mobilitazioni.

Cos'è accaduto lo scorso anno? Ripensiamoci un attimo. La enorme manifestazione del 23 marzo e lo sciopero del 16 aprile avevano momentaneamente indotto il governo a tirare il freno nell'attacco che aveva lanciato sul mercato del lavoro. Ma a quel grande potenziale di lotta non è stato offerto l'unico sbocco "concreto" in grado di organizzarlo, cementarlo, farlo crescere e fargli raggiungere l'obiettivo di porre un alt completo all'attacco capitalistico subìto: un vero sciopero generale che vedesse mobilitati insieme, come è accaduto il 23 marzo, lavoratori "garantiti" e giovani precari, proletari italiani e immigrati, sfruttati e sfruttate; uno sciopero generale ad oltranza per il licenziamento dalla piazza del governo Berlusconi.

Il movimento di lotta dello scorso anno è stato invece indirizzato verso un altro tipo di sbocco, pur se non proclamato esplicitamente ma piuttosto trasparente: quello di un (più o meno lontano) "cambio elettorale". Nelle scorse settimane tutto è diventato esplicito, con l'ingresso di Cofferati nel comitato per il programma di un "grande Ulivo". Ma una simile finalizzazione al gioco elettorale, lungi dall'incoraggiare il completo risveglio alla lotta dei lavoratori chiamati in campo il 23 marzo, ha risospinto all'indietro la mobilitazione, ingessando la fiducia che i lavoratori cominciavano a ritrovare nella propria forza. Abbiamo l'impressione netta che questa ripresa dell'iniziativa da parte della Cgil accentuerà ulteriormente il carattere di semplici azioni di pressione delle mobilitazioni di piazza e, crediamo, proprio per la stessa natura di questa proposta, metterà ancor più la sordina alla necessità di abbattere in piazza il governo Berlusconi, che pure lo scorso anno cominciava ad essere avvertita. Con effetti non positivi sulla coesione e sul "morale" del movimento di lotta, ci sembra, già nella fase preparatoria della mobilitazione del 21.

L'unico declino che ci interessa combattere:

quello della nostra classe!

Saremo perciò della partita, come sempre, il 21 febbraio e oltre, affinché i lavoratori facciano del canovaccio di Epifani il punto di ripartenza per lo sviluppo di una lotta intransigente in difesa dei posti di lavoro, del recupero del potere di acquisto dei salari, della riduzione della flessibilità e della precarietà. Non ci nascondiamo le difficoltà che si frappongono ad un simile processo, anche per effetto della blindatura della vita sociale connessa alla nuova guerra. C'è tuttavia un solo modo per superarle: preparando, con una azione politica coerente di cui sia parte integrante la critica del riformismo, le condizioni soggettive (quelle oggettive, che contano al massimo grado, non dipendendo da noi) per una lotta che sia davvero in grado di imporre le nostre ragioni alla controparte e di convincere a scendere in campo i lavoratori sfiduciati, quelli aggrappati all'illusione "tanto non tocca a me", quelli pesantemente ricattati dalla precarietà o dalla mannaia del permesso di lavoro.

Tale lotta può essere data, come mostrano le esperienze sindacali più significative dell'ultimo decennio in Occidente (2), solo da un insieme di iniziative che arrivino a paralizzare, e non semplicemente per un giorno, l'apparato produttivo e la rete nazionale dei trasporti, che trovino il loro perno nel ritorno del protagonismo di massa degli sfruttati ora spesso passivi. Tanto per intenderci, una Termini Imerese dei mesi scorsi a scala nazionale...

Ma perché possano darsi lotte di simile intensità, quelle di cui abbiamo bisogno come l'ossigeno, è necessario che si rimettano al centro della lotta le incomprimibili necessità vitali dei lavoratori. Anziché continuare a rimandare, è tempo che almeno da parte di una avanguardia combattiva della classe si prenda atto del fatto che oggi la compressione spietata della condizione operaia può essere fermata solo sulla base della difesa intransigente delle nostre condizioni.

Cosa ce lo impedisce? Il timore di mettere in pericolo gli interessi delle aziende e dell'Italia? Ma questi interessi se ne fregano di mettere in pericolo le necessità perfino elementari dei proletari. Anzi stanno facendo del tutto per farci colare a picco.

La svolta politica di cui, a nostro avviso, ha bisogno la classe operaia non è il ritorno al governo dell'Ulivo nel 2006 o quando che sia, è il ritorno alla lotta di classe dispiegata e autonoma dalle compatibilità del capitale. Occorre che ci se ne faccia promotori in prima persona, con un impegno diretto nei posti di lavoro, nei quartieri, nelle scuole. Con la preoccupazione costante di sanare la frattura tra precari e "garantiti", tra sfruttati italiani e immigrati, tra oppressi del Nord e del Sud attraverso la parificazione verso l'alto delle rispettive condizioni di vita e di lavoro, dei "diritti" sindacali e politici. Con il progetto, ecco un progetto realmente "alto", di ricostruire realmente un'organizzazione politica che sia dei lavoratori e per i lavoratori.

E rilanciando la lotta generale, radicale contro il governo Berlusconi, che va mandato a casa senza indugi ulteriori perché già ci ha fatto sufficienti danni.

 


Note

(1) Lo fanno intendere anche i dati che riporta l'ultimo numero di Limes sul declino del capitalismo italiano. Ne abbiamo discusso ripetutamente nei numeri precedenti del nostro giornale, almeno a partire dall'ampio dossier "La crisi italiana" pubblicato nel n. 29, al quale rimandiamo per un inquadramento storico e teorico della questione.

(2) Prime fra tutte quella contro i contratti precari e i bassi salari nella multinazionale statunitense Ups e quella svoltasi in Francia nel 1995.