Il
referendum sull'art.18Il referendum sull'art. 18 solleva un problema reale e realmente sentito da moltissimi proletari, soprattutto da quelli più giovani: quello di avere una qualche forma di difesa individuale e collettiva contro lo strapotere del dispotismo aziendale anche nelle aziende minori. Lo riconoscemmo anche nel momento in cui partì la campagna per la raccolta delle firme obiettando però, e non fummo i soli, che né il momento né il terreno prescelto per questo indispensabile allargamento delle tutele erano quelli propri.
Non il momento, perché si era nel bel mezzo di una mobilitazione diretta della massa dei lavoratori in difesa dell'art. 18 e contro il disegno governativo che, per quanto blanda, era tuttavia estremamente ampia, ed era ad essa che doveva essere assegnato il compito anche della estensione delle garanzie, tanto più perché le giovani generazioni di operai e di salariati se ne erano fatte coinvolgere; viceversa, l'avvio di una raccolta f ime per il referendum non poteva non suonare come una sorta di preannuncio di sconfitta e di ripiegamento su di un terreno che è, per tradizione, sfavorevole alla classe lavoratrice. Ma neppure il terreno, poiché appunto, per sua natura, l'istituto del referendum, come ogni contesa elettorale, mette nelle mani di tutte le classi sociali un problema che è del proletariato e porta quest'ultimo alla conta sempre, nonostante tutto, "sparpagliato".
Ora, con la partenza della campagna elettorale vera e propria, la questione si ripresenta ma in un contesto parzialmente mutato, mutato per via della chiusura, o, quanto meno, del "congelamento" a tempo indeterminato, da parte dei vertici della Cgil, della lotta generale diretta sull'art. 18. In questo nuovo contesto, più "arretrato" di un anno orsono per il riflusso della mobilitazione generale, l'iniziativa referendaria può essere vista come la sola carta di riserva che resta ai lavoratori più precari per sortir fuori in qualche modo dal ricatto sempre più pesante della precarietà.
E esattamente questo, a nostro avviso, l'elemento da tenere attentamente sotto osservazione: e cioè se, nonostante la impostazione interclassista e schedaiola che la anima e la governa ed, in una certa misura, al di là e contro di essa, la campagna referendaria possa davvero tradursi in momenti di reale mobilitazione rappresentativa di istanze di classe. Al momento non sembra sia questo il caso, nel senso che un'attesa, anche ampia, esiste intorno ad essa, ma si tratta di un'attesa che, come di norma in materia di elezioni, resta passiva. È esattamente questo dato di fatto obiettivo, che non siamo così illusi da pensare possa essere ribaltato dalle nostre forze, che ci fa optare per rimanere fuori dai comitati referendari che, là dove sono stati effettivamente costituiti, paiono composti soprattutto da funzionari, semi-funzionari sindacali o politici, o anche da un certo numero di "semplici" delegati che si muovono in un'ottica da "comitato elettorale" e di necessità, per aspirare a vincere, debbono rivolgersi anche al di là del proletariato. Un esempio per tutti può essere quello di un importante esponente del Comitato del referendum per il Veneto appartenente a Rifondazione, che si è sforzato di presentare il referendum stesso, oltre che come mezzo di tutela per chi lavora, anche come positivo stimolo all'industria del nord-est affinché abbandoni la via dello sviluppo basata sulla "riduzione delle tutele" e sui bassi salari dei lavoratori e si decida, invece, ad imboccare la miracolosa "via alta" che prevederebbe più tutele per chi lavora sulla base di una maggiore innovazione e ricerca.
Certo non è facile che, in una situazione come l'attuale, dei comitati pro-referendum possano risolversi in una pura e semplice "mobilitazione elettorale" interclassista senza affrontare la somma di questioni politiche che la stessa estensione dei "diritti" pone, e senza portare avanti, in una qualche misura, una diversa proiezione verso la massa dei lavoratori (e verso le forze politico-sindacali della "sinistra" già schierate contro un'iniziativa che è presentata dall'Unità come una sorta di sabotaggio). Vi sono chiamati anche dal fatto che questa volta non ci si potrà limitare a fare appello indistintamente al "popolo elettore", ma occorrerà rivolgersi alla stessa base "comune" di classe che la "sinistra che conta" fa remare contro. Per certi versi la decisione della direzione della Cgil e dei Ds di opporre alla via referendaria l'ipotesi, totalmente illusoria, di una nuova legge (in questo parlamento!), se da un lato indubbiamente complica la campagna referendaria, dall'altro però in qualche modo la favorisce per la sua stessa intrinseca debolezza. E lo stesso può dirsi per quel che riguarda la ventilata eventualità che l'area governativa, su impulso di Maroni ed altri e con il sostegno della stessa Confindustria, dia vita addirittura ad attivi comitati per il no, poiché questa provocazione potrebbe sortire anche l'effetto di riscaldare oltre la norma il clima elettorale.
Tuttavia le illusioni dei capi refendari sul carattere di per sé vincente del referendum, e la preoccupazione che comunque li lega tutti tra di loro, e con gli anti-referendari, di non pregiudicare più di tanto gli interessi dell'Italia in una simile fase di accentuato declino di essa accendendo oltre il dovuto lo stesso "scontro" elettorale, possono anche mandare disperse queste opportunità.
Allo stato dei fatti, il nostro atteggiamento verso il referendum è perciò quello di tenere fermo un "colloquio" con i lavoratori "comuni" e i delegati di base che vedono in esso un modo per portare avanti e rilanciare la mobilitazione di classe. Ci assumiamo volentieri nei loro confronti l'impegno "comune" di farci carico, a modo nostro, delle ragioni del "quesito". Di certo non diremo loro in modo schematico: poiché siamo contro il metodo elettorale, sempre disastroso per la nostra classe (come, ormai, da inequivoco bilancio storico), mettiamo voi e il ricostituito duo Cofferati-D'Alema sullo stesso piano (non sono la stessa identica cosa, peraltro, neanche D' Alema e Cofferati, ancorché siano entrambi favorevoli a varare una nuova legge "migliorativa" di quella del 1970 con questo parlamento dominato dal Polo... quando si dice la commedia degli inganni). Diremo, invece: appoggiamo le vostre istanze, ma, sin dall'inizio, col metodo e il programma che ci contraddistinguono.
E conviene, poiché l'esito del referendum appare già scontato, tirare in anticipo e fino in fondo le lezioni del caso. Lezioni che, mettendo in luce come e qualmente sia stato, tanto dalla leadership anti-referendaria quanto da quella referendaria, disperso il potenziale di lotta, soprattutto operaio, espressosi dal luglio 2001; come e qualmente questa dispersione di un'energia dal "riformismo" stesso chiamata in campo, abbia lasciato il campo piuttosto sguarnito per i nuovi affondi del padronato (vedi, in primis, la vicenda Fiat) e del governo (vedi, in questo caso, in primis il coinvolgimento nella guerra e, in questo campo specifico, il varo dell'intero blocco di misure di precarizzazione del "libro bianco"); non possono non concludersi con l'invito, nient'affatto ideologico e pregiudiziale, bensì fondato su una montagna di dati di fatto (accumulatisi, purtroppo, per lo meno dalla famosa "svolta dell'Eur" del 1978 ad oggi), a "voltare pagina" rispetto a questa interminabile stagione della subordinazione dei lavoratori alle "compatibilità" del capitale, e scrivere una nuova pagina nella quale siano messi finalmente al centro i bisogni, le necessità vitali incomprimibili del proletariato tutto. Ciò che richiede anche forme di azione ben diverse da quelle interclassiste e schedaiole.
Se poi dovesse davvero darsi un quadro più favorevole di reale mobilitazione anche su questo piano in virtù degli effetti della partenza della lotta contrattuale, della riaccensione dello scontro alla Fiat, delle mobilitazioni antiguerra, etc., e questo si riflettesse anche nei comitati referendari, allora potrà anche essere proficuo, per noi e per essi, entrare nei comitati, sempre alle nostre condizioni, e cioè senza trasformarci in galoppini elettorali. Poiché l'azione referendaria non può surrogare il movimento generale di lotta: una risposta positiva al disagio delle giovani generazioni di proletari e alle aspettative di tanti lavoratori di una riscossa generale contro questo schifoso governo e le continue aggressioni padronali, che riguardi, oltre "i diritti", l'intera condizione di lavoro e di vita dei salariati, non può che passare per la ripresa del protagonismo di classe su tutti i terreni.