Il terzo Forum
di Porto Alegre,
tra istituzionalismo e
crescenti spinte di classe
Lo svolgimento del terzo Forum Sociale Mondiale, tenutosi a Porto Alegre alla fine di gennaio, ha fornito una serie di novità e di conferme su cui stendiamo una prima bozza di riflessione e bilancio.
Cominciamo da un dato relativo alla composizione dei partecipanti. La novità di quest'anno è stata la massiccia presenza di delegati provenienti dagli Stati Uniti. Il fatto che la delegazione Usa fosse per numero seconda solo a quella brasiliana è un dato decisamente positivo da rilevare con estremo interesse. Essa non solo è frutto della recente espansione del movimento di opposizione alla guerra negli States, ma si è manifestata all'interno di un "appuntamento" il cui principale punto di coagulo è stato dato dall'avversione (spesso fortemente radicale) alla complessiva politica di Washington. Il no alla guerra all'Iraq ed il no ai trattati commerciali capestro (tipo Alca e Nafta) imposti da Wto, Fmi, Banca Mondiale sono stati infatti i perni attorno ai quali si sono date e sviluppate le giornate del Forum. La nutrita presenza nord americana è un ulteriore e salutare sintomo di come la società guida del capitalismo internazionale sia nel suo stesso ventre sempre più divisa e spaccata lungo linee di classe. Quando a Porto Alegre il rappresentante dell'AFL-CIO invoca l'unità mondiale della classe operaia e afferma che gli accordi commerciali NAFTA ed ALCA sono un "cappio per l'America Latina, ma anche per i lavoratori USA" (il manifesto, 25 gennaio), non lo fa per una pura e semplice operazione di cosmesi e d'immagine. Se infatti la direzione del più grande sindacato nordamericano (la cui storia è pesantemente segnata da politiche corporative, nazionaliste e scioviniste) si spinge a tali affermazioni è perché, volente o nolente, è costretta a fare i conti con la pressione montante "dell'America" dei lavoratori, delle donne, dei giovani e degli immigrati. Di quella "altra America" che sempre più subisce anche direttamente su di sé il crescente peso "interno" della politica mondiale e globale del Pentagono e di Wall Street, ed in cui avanza la spinta a guardare verso quei popoli e quegli sfruttati che vengono oppressi, calpestati e schiacciati dal "proprio" Stato e dal "proprio" governo.
Un vertice sempre più istituzionale?
I mezzi d'informazione, anche quelli che ne hanno seguito con benevolenza i lavori, hanno a più riprese evidenziato la possibilità che il Forum Sociale Mondiale assuma caratteristiche sempre più istituzionali e sempre meno di "movimento". La possibilità dell'accentuarsi di un simile processo (in parte già ampiamente in atto) esiste, e come! Ad essa contribuiscono vari fattori. Il più appariscente, soprattutto agli occhi del la stampa di sinistra, è costituito dalla affermazione elettorale di Lula e del Pt. Che la vittoria del presidente "operaio" (proveniente dalle favelas costui, e non da Arcore) possa contribuire di fatto a rafforzare una tale deriva è incontestabile. Tutta la campagna elettorale di Lula si era data da fare per mostrare che si poteva vincere al tavolo delle elezioni in nome degli "interessi del popolo"; si poteva farlo al solo patto di riuscire a dimostrarsi "propositivi" e "realisti", contrapponendo alle "esasperazioni rivoluzionarie" di questo o quel settore di "popolo" o di questa o quella... setta (comprese quelle interne al PT) un lavoro di estensione delle "alleanze". Così, al secondo Porto Alegre, e più ancora in questo, han potuto dilagare le presenze di "nostri amici" istituzionali, in special modo dall'"amica" Europa, a dare il tono che non solo un altro mondo è possibile, ma esso è già in atto a colpi di riforme condivise. Il fatto è, però, che a propiziare la vittoria di Lula, sono esistiti ed esistono bisogni e lotte di classe veri, che le promesse di Lula di restare fermo al suo programma per il popolo debbono scontrarsi immediatamente con le "superiori esigenze" dettate dall'imperialismo, e tutto ciò mina direttamente alla base la prospettiva di una definitiva chiusura dell'esperienza di Porto Alegre dentro i meri recinti del riformismo (impossibile) istituzionale. D'altra parte, la gran parata degli "amici europei" ha ben poco da gettare sul piatto in termini di sostegno reale ad un riformismo che, per esser tale sul serio, dovrebbe darsi in termini "rivoluzionari " rispetto all'intero assetto imperialista metropolitano. Una precisa sensazione di ciò si avvertiva nel "popolo" vero che, l'anno scorso, stava a sé ed a parte rispetto alla gran cornice istituzionale di vertice, e quest'anno crediamo che questa sensazione sia più che cresciuta. Non che sia arrivata al traguardo di una coscienza e di un'organizzazione rivoluzionarie, va da sé, perché il movimento di vera lotta di classe che c'è nell'area sconta inevitabilmente contraddizioni e ritardi; ma di sicuro ha oggi una marcia in più.
Perciò, a fianco di questa spinta all'istituzionalizzazione piena di "buoni propositi" costretti ad una rapida resa dei conti, a Porto Alegre si è anche manifestato un ...
Crescente protagonismo delle masse latino americane
Rilevare che, quantitativamente parlando, i sud americani abbiano fatto la "parte del leone" può sembrare ed in parte è (visto che la geografia ha ancora un senso) una semplice e scontata ovvietà. Meno scontata è stata la qualità e la forza della loro scesa in campo. Il Forum si è aperto e si è chiuso con due imponenti cortei "contro la guerra all'Iraq e contro l'Alca". Centinaia di migliaia di sfruttati latino americani (in crescita quest'anno la partecipazione argentina) hanno unito il grido di lotta contro gli strangolatori trattati commerciali imposti dall'Occidente al grido di ribellione contro la "guerra permanente" di Bush, Blair e soci. Nonostante siano pochissimi i delegati arabi o islamici, la bandiera palestinese sventola ovunque. La CUT (il sindacato brasiliano) marcia in massa "per la Palestina e contro l'ALCA". Chi è sceso in piazza manda anche messaggi verso "l'interno". Nonostante l'enorme fiducia che attualmente riversano sul "loro presidente", le masse non rinunciano ad incalzarlo. "Lula, dici una parola chiara, fuori dall'Alca": è questo, significativamente, uno degli slogan più gridati.
Non "solo" nei momenti di piazza, ma anche nelle assemblee e nei dibattiti si è registrata una presenza di massa oltre le più rosee aspettative, ed è stata proprio una simile e complessiva partecipazione diretta degli sfruttati che ha permesso al tema della lotta contro la guerra all'Iraq di emergere con dirompente potenza e ha contribuito a far sì che altre tematiche, quali ad esempio la possibilità di puntare su un'Europa "diversa", siano (almeno ad una prima disanima) passate decisamente in secondo piano. A tal proposito è bene intendersi. Che tanto la guerra, quanto i complessivi meccanismi di sfruttamento ed oppressione mondiale siano oggi in buona parte visti dalle stesse masse in questione come dovuti alla "sola ed esclusiva" volontà di potenza Usa, è un fatto. Che, quindi, le sirene alternativoeuropeiste, ben annidate tra l'altro in seno al movimento stesso, abbiano sempre possibilità di esercitare il loro funesto incanto, continua ad essere un altro fatto. Che però la lotta e la scesa in campo delle masse del Sud del mondo contribuisca ad affievolirne il sex-appeal è un altro fatto ancora. Perché? Perché è sì perfettamente logico e comprensibile che chi si batte in America Latina (e non siamo ai piccoli numeri!) manifesti innanzitutto il suo odio di classe contro il bastione diretto numero uno dell'aggressione imperialista e quindi, dal punto di vista di un certo "realismo" sempre e comunque riformista in partenza (per quanto combattivo possa essere), non si metta sullo stesso piano un'Europa che non si presenta sotto un identico aspetto di nemico diretto; ma a quest'Europa, in ogni caso, si chiede semmai una sponda su cui far affidamento per questa propria battaglia, e qui cominciano i guai per qualcuno. A cosa si riduce l'"appoggi" al tentativo riformista di Lula da parte dell'Europa in carne ed ossa? A zero nei fatti. Sarebbe altra cosa se qualcuno gettasse sul piatto la solidarietà di classe del proletariato nostro, di qui. E non ci pare che tra i tanti inviati speciali europei a Porto Alegre qualcuno l'abbia fatto sul serio... Eppure, sarebbe proprio questa l'"altra Europa possibile" per un "altro mondo possibile" che saremmo in grado e dovremmo mostrarci in grado di offrire, come ce lo chiedono i nostri fratelli latino-americani. Per poco che valgano i nostri numeri, questo è l'oggetto del nostro lavoro.
I Chavez e la necessità di difendersi a scala sovranazionale
"L'esperienza del Venezuela viaggia sul treno del continente", "Faremo un uso anti-liberista del petrolio", "La povertà si combatte dando il potere ai poveri": queste le frasi ed il contenuto dell'intervento del presidente venezuelano che, dopo essere stato accolto trionfalmente a Porto Alegre, ha letteralmente scatenato l'entusiasmo popolare. Demagogia populista di un caudillo? No! Le parole di Chavez sono un'eco (distorta e filtrata, ma pur sempre forte) dell'estendersi e del rafforzarsi della capacità e della volontà di resistenza alla pressione imperialista delle masse sfruttate Sud americane e della loro istintiva proiezione verso un fronte di lotta che vada oltre i singoli confini nazionali e che si proietti a scala "almeno" continentale. I Chavez ed i Lula, come i Gutierrez in Ecuador, sono gli interpreti dell'esigenza di un capitalismo nazionale più equilibrato e meno prono ai diktat imperialistici, di un capitalismo che tenga conto delle esigenze di tutta la "nazione" e che per questo deve svincolarsi almeno in parte dal dominio esterno a cui è soggetto. "Sono bolivariano, non comunista" dice, quasi a sintetizzare tutto ciò e con estrema franchezza, l'audace presidente venezuelano. Ma anche le borghesie "riformiste" e bolivariane, per poter provare a dare gambe alle loro aspirazioni, devono iniziare a guardare oltre i ristretti confini nazionali. La proposta, al momento assai vaga, di Chavez sulla creazione di un unico cartello petrolifero sud americano, così come l'asserita volontà di Lula di rivitalizzare il Mercosur (il mercato comune latino americano) in contraltare all'Alca, sono proprio frutto proprio di tale esigenza. Ma il fatto è che ad uno svincolamento dall'imperialismo e ad una lotta sovranazionale sono interessate anche (e soprattutto!) le masse lavoratrici dell'area ed è proprio la loro pressione a conferire alle dichiarazioni e (spesso) alle azioni politiche di Chavez connotati di non disprezzabile radicalità.
Certo, sappiamo benissimo che le borghesie nazionali, anche le più decise e "plebee", non potranno mai portare sino in fondo il programma anche di "semplice" sganciamento dall'imperialismo, posto che l'imperialismo non è un occasionale luogo da cui potersi a proprio piacere ritirare, ma costituisce la realtà del sistema di funzionamento del capitalismo mondiale nel suo complesso, in quanto sistema. Quello che qui ci preme evidenziare è come tra la, al momento, vigorosa resistenza di un Chavez e la pressione delle masse vi sia comunque una stretta relazione. Chi ha salvato Chavez dai suoi nemici interni (cioè dai cani da guardia "compartecipativi" del sistema imperialista "esterno" che detta le leggi)? Non la "nazione" venezuelana in tutti i suoi apparati istituzionali, ma il popolo in armi. Chi continua a tenere in vita l'anomalia cubana ad onta di decenni di attacchi di ogni tipo? Idem. Chi salverà Lula? Idem. Cosa vuol dire? Che le ragioni della lotta anti-imperialista, ancor prima e senza che essa riesca a darsi un programma ed un organamento comunista, promuovono la classe degli sfruttati al ruolo di protagonista e la mettono direttamente in contrasto con la "propria" borghesia, inetta ad assumersi "anche solo" i "propri" compiti borghesi. Vecchia storia teorica, e praticissima...
Perché a Porto Alegre 2 il movimento più radicale dal basso premeva perché ci venisse Castro, rifiutato dagli organizzatori in quanto "capo di stato" (non come... Veltroni, rappresentante del movimento)? Perché a Porto Alegre 3 si è dovuto lasciar intervenire Chavez e la sua presenza è stata accolta dal basso con entusiasmo? Per il semplice motivo che sempre più s'impone al movimento l'alternativa tra scomposti disegni "mondialriformisti" sulla carta e la costituzione di un concreto fronte d'attacco contro l'aggressione imperialista mondialmente in atto. L'anno scorso a Porto Alegre un vasto senso comune pareva dire questo: la situazione nei vari paesi del nostro continente sembra avere cause simili; reagiamo ad esse in modo simile e specifico in ciascuno di essi. Quest'anno è cresciuta la consapevolezza che le cause sono comuni -e non riguardano neppure il "solo" continente in oggetto- e ad esse si deve reagire, sia pure "specificamente", in termini unitari. Non è una semplice dislocazione linguistica. E non è neppure l'opera compiuta (e come potrebbe esserlo, vista la nostra persistente disunitarietà?), ma una linea certa d'indirizzo è tracciata.
Ieri: Brasile più Cuba più Argentina più Venezuela. Oggi: Brasile, Cuba, Argentina, Venezuela, Ecuador e popoli "islamici" che si vuole schiacciare per schiacciare "dopo " (e contestualmente) noi.
Dice da Porto Alegre lo studioso e militante "no global" filippino W. Bello: "I movimenti non hanno altra scelta che unirsi" (il manifesto, 25 gennaio). Cosa significa, in bocca ad un "lontano" filippino, neppure marxista in senso stretto? Che la lotta antagonista per "un altro mondo possibile" non può darsi se non "riattualizzando", e cioè riprendendo sino in fondo, quello che un certo "ebreo tedesco" proclamò come programma per "i movimenti", "il movimento che abolisce lo stato di cose presente": Proletari di tutti i paesi, unitevi!
Un po' più uniti e coscienti, dopo Porto Alegre 3, lo siamo un po' tutti.