Burqa, Afghanisthan, aggressione imperialista
Il governo degli Stati Uniti, gli altri governi occidentali, i grandi mezzi d'informazione affermano che l'intervento militare in Afghanistan si prefigge anche il nobile scopo di liberare la donna afghana dalla prigione domestica in cui la teneva reclusa il regime patriarcale dei Talebani.
Le donne, le lavoratrici, le compagne che stanno partecipando alla ripresa delle iniziative contro l'oppressione femminile non hanno abboccato all'amo velenoso. Hanno sentito che non possono essere le bombe degli Stati Uniti e dei loro alleati la soluzione dei problemi delle donne afghane. Ma allora, a quali condizini le donne afghane si possono liberare? E la campagna occidentale sul burqa non mira forse a colpire (insieme alle donne dell Afghanistan e dell'intero mondo islamico) anche le donne dell'Occidente? Ne ragioniamo nel nostro opuscoletto Quale lotta di liberazione per le donne dell'Afghanistan?, di cui presentiamo una breve sintesi.
Il
primo punto che affrontiamo è quello
delle radici della drammatica condizione
della donna in Afghanistan.
È mistificante chiamare in causa
a tal proposito prioritariamente la
religione islamica, come spieghiamo
in un nostro articolo del 1996 su Donna
e islam che ripresentiamo in appendice all'opuscoletto.
"La storia e l'influsso della religione,
scriviamo, vanno spiegati partendo dalla
storia e dalla vicende della società, e
non viceversa." È dunque alla storia che
occorre rivolgersi per comprendere come
mai una donna in Afghanistan
vive solo
43 anni in media, perché è stata risospinta
a vivere completamente tra le mura
domestiche, perché una donna su 17
muore in seguito al parto... E non soltanto
alla storia recente successiva al ritiro
dell'Armata russa da Kabul. Occorre
riandare almeno ai primi decenni dell'Ottocento,
al periodo in cui l'attuale Afghanistan
entrò nello spazio vitale dell'impero
coloniale britannico. Alle quattro
aggressioni economiche e militari che la Gran Bretagna e l'intero Occidente
hanno scatenato contro i popoli afghani
nell'arco di 150 anni prima di avviare
la quinta in corso d'opera. Alle iniziative
e alle lotte portate avanti dai popoli
afghani (nel 1919 e nel 1978) per
sottrarsi al sottosviluppo e alla tutela
semi-coloniale occidentale. Lo illustriamo
nell'opuscoletto. Ci limitiamo qui a
riassumerne le conclusioni.
Primo.
La donna afghana ha potuto cambiare
il suo destino solo quando ha sostenuto
il tentativo del paese di sottrarsi
alla morsa della arretratezza e della
rapacità del capitalismo occidentale.
Secondo.
Questo tentativo, a sua volta, ha
trovato nella lotta per la liberazione
della donna e nel coinvolgimento delle
donne un fattore vitale per il proprio avanzamento.
Terzo.
Il capitalismo occidentale, per mantenere
il suo ordine planetario, non può
tollerare l'uscita dell'Afghanistan dal
sottosviluppo. Esso fa immediatamente
scattare l'aggressione per accerchiare,
isolare e sconfiggere, con il concorso
delle forze più retrograde del paese,
qualunque iniziativa in tal senso, per
quanto timida e incoerente.
Quarto.
Proprio per questo, non ci può essere la liberazione dei popoli e della
donna dell'Afghanistan se non all'interno
della lotta di liberazione delle masse lavoratrici di tutta l'Asia e degli sfruttati
del mondo intero.
La riprova delle nostre tesi la si è avuta negli ultimi anni. I Talebani sono stati vezzeggiati dall'Occidente fino a quando sono stati docili strumenti della sua politica. Quando non hanno accettato completamente i piani della Unocal per la costruzione del gasdotto dal mar Caspio all'oceano Indiano, quando hanno tentato di riavviare (con la sponda cinese) la riunificazione del paese frammentato da anni di guerre, quando hanno cominciato a dare spazio al messaggio "antimperialista" di bin Laden, allora e solo allora sono entrati nel mirino dell'imperialismo. Allora e solo allora quest'ultimo ha scoperto la condizione della donna sotto i Talebani, e per aiutarla a liberarsene ha riversato migliaia di tonnellate di bombe sui villaggi e sulle case rimaste in piedi.
Il ritorno del burqa
Riconoscendo
un simile dato di fatto non ci
accodiamo, neanche per un transitorio tratto di strada
"comune", alla direzione dei
Talebani. La nostra critica tuttavia
non s'appunta sul quel tanto (o poco
che sia) di resistenza all'imperialismo che essa ha dovuto evocare. Bensì sull'impotenza
del suo programma ai fini di una
conduzione coerente e vincente di
tale resistenza. La direzione dei Talebani
non ha messo in campo alcun piano di
lotta di massa e ciò si è manifestato anche
nel fatto che non ha chiamato le donne a partecipare in prima fila alla battaglia
contro l'imperialismo. Questa battaglia,
però, risulta essere impotente se
non si avvale di questa partecipazione
e, quindi, se non chiama in causa le strutture
patriarcali che schiacciano la donna
in Afghanistan
e nell'area islamica.
Che, lungi dall'essere qualcosa di indipendente
dal dominio imperialista, rappresentano
una delle basi su cui l'Occidente
fonda l'imposizione del suo giogo.
Il ritorno del burqa non è, infatti, un elemento locale e autonomo dalla cosiddetta globalizzazione capitalistica. È il riflesso, sul piano dei rapporti tra i sessi, del regresso sociale richiesto in Afghanistan dall'avanzamento degli scintillanti indici di borsa di New York, Londra e Milano. La lotta contro il dominio occidentale non può essere isolata dalla lotta contro queste strutture oppressive interne, contro la segregazione delle donne. Quest'ultima non può, dunque, essere rimandata a un secondo tempo, dopo che il paese è riuscito a scrollarsi di dosso il giogo dall'occidente: tale giogo non cadrà se non attraverso una lotta capace di affrontare la bestia imperialista in tutti i suoi tentacoli.
Oggi l'imperialismo con le sue truppe "libera" le donne di Kabul dalle loro case per metterle nei propri bordelli, come è successo in Kosovo e in Bosnia. O per spremerle nelle fabbriche situate nelle zone industriali, insieme alle centinaia di milioni di lavoratrici già sotto la sferza occidentale: e come le si tiene sotto controllo se non anche con il terrore delle anni? Noi ci o?stoniamo a questa pretesa "liberazione , che è una schiavizzazione duratura. Non per conservare l'attuale situazione, ovviamente, ma per cambiarla per davvero. Da questo punto di vista cosa si muove in Afghanistan? E cosa va fatto qui?
Quali alleati?
Il
20 novembre c'è stata nella Kabul "liberata" una
manifestazione indetta dall'Unione delle donne afghane
"davanti alla sede delle
Nazioni Unite per rivendicare i
diritti delle donne al lavoro, all'istruzione, alla partecipazione alla vita politica,
transizione compresa." La manifestazione
è il frutto della resistenza, più o
meno carsica, che alcuni settori femminili
afghani hanno sviluppato negli anni
precedenti contro la reclusione imposta
loro dall'Alleanza del Nord prima e
dai Talebani successivamente.
Noi,
comunisti internazionalisti, appoggiamo
incondizionatamente queste iniziative, e come parte di questo appoggio
non manchiamo di chiamarle a superare
quello che nella loro impostazione politica è di ostacolo all'obiettivo sacrosanto
che si prefiggono. Giustamente esse
hanno imparato che c'è bisogno del
loro diretto protagonismo. Ma esso non può contare sull'azione dell'
Onu o della comunità internazionale,
sui paesi europei, sull'ex-re catapultato
da Roma a Kabul, come invece sembra
emergere dalle prese di posizione
di alcune associazioni di donne afghane. Né esse possono pensare di portare
avanti efficacemente la loro lotta da sole. Le loro rivendicazioni e le loro istanze possono essere affermate
solo
entrando a far parte dell'ampio fronte
di lotta che combatte l'aggressione
occidentale, cui partecipano anche molte
donne che vedono in un Islam combattivo e "riformato" un punto
di riferimento per cambiare la loro condizioni.
Comprendiamo quanto questo fronte di lotta, spesso oggi raccolto dietro organizzazioni islamiche che teorizzano un ruolo subordinato della donna, non riscuota le simpatie dei nuclei delle donne afghane mobilitate per la difesa dei propri diritti. Ma l'azione a cui queste ultime sono chiamate è quella di entrare in rapporto con questo fronte di lotta, portarvi le esigenze delle donne e di far valere il fatto che non ci potrà essere una vera lotta all'imperialismo senza la partecipazione delle masse femminili.
Compiere
questo passo non è facile. E non è
facile non tanto per motivi locali o
levati alla pretesa "arretratezza culturale del mondo islamico. Se
"là" è così difficile lo
sviluppo di un movimento antimperialista
è perché "qui" in Occidente
stenta a svilupparsi una solidarietà militante
e incondizionata con questa resistenza,
sia nel campo delle donne che in
quello più generale degli sfruttati.
Allo sviluppo di una simile mobilitazione è impegnato il nostro lavoro e ad esso chiamiamo le donne, le lavoratrici, le compagne che vogliono davvero portare la loro solidarietà alle sorelle afghane. Siamo ben contenti che esse, in generale, non abbiano abboccato all'amo velenoso teso dai governi occidentali. È un punto di partenza vitale. Che è chiamato, però, se non vuol negare se stesso, a vedere che la campagna dei governi occidentali sul burqa ha come bersaglio anche le donne occidentali. Con l'altra velenosa tesi che cerca di insinuare: quella espressa da Sofri secondo cui la condizione della donna in Occidente è meno inumana di quella afghana, il che proverebbe la superiorità del capitalismo maturo e democratico rispetto alla "civiltà islamica".
Il burqa riservato alla donna in Occidente
Non
saremo certo noi a negare che ci sia
un'enorme differenza tra la vita di una
donna a Roma e quella di una donna
di Kabul. Quello che affermiamo è che
la "libertà" di cui "gode" la donna occidentale
è in realtà una nuova forma (raffinata)
della millenaria schiavitù femminile
e che essa è inestricabilmente vincolata
a quella brutale che schiaccia la donna afghana.
Il
capitalismo ha "liberato" la donna occidentale
da tutta una serie di ceppi e tradizioni,
l'ha inserita nel mondo del lavoro
extra-domestico ma solo per immetterla
in una socializzazione comunque
subordinata e alienata, nella quale svolge
(pur con l'apparenza della libera decisione di sé) il ruolo di manodopera
super-sfruttata, di serva domestica e di
gingillo sessuale ai fini di conservazione
del sistema capitalistico mondiale. Se
questa situazione, finora, non ha suscitato
una battaglia campale delle masse
femminili occidentali, è perché il capitalismo
è riuscito a smussare e ad "addomesticare"
le lotte e le rivendicazioni messe
in campo dalle donne in Occidente
dall'Ottocento ai decenni scorsi. Vi
è riuscito grazie alle risorse economiche
saccheggiate sulla pelle dei popoli
e delle masse femminili di colore.
Una misera parte di questo bottino di guerra è stata (malvolentieri) ceduta dalle borghesie occidentali anche alle donne comuni occidentali, con l'effetto di sedimentare in loro l'illusione di poter gradualmente migliorare la propria condizione entro il quadro del capitalismo internazionale, di mettere un freno alla loro possibilità di scoprire (nella lotta) che si è ancora schiave e che la propria schiavitù democratica è l'altra faccia della stessa medaglia che schiaccia in modo brutale e violento le donne dell'Afghanistan (e di tutto il Sud del mondo): l'una e l'altra sono effetti diseguali e combinati di uno stesso sistema di dominazione internazionale di classe, di razza, e di sesso; l'una sostiene l'altra ed esse possono cadere solo se vengono combattute insieme con un fronte internazionale di lotta contro l'imperialismo e il capitalismo che stringa in unità le donne occidentali con quelle di colore, e le une e le altre con i rispettivi sfruttati maschi.
Un comune percorso di liberazione
Già una volta nella storia le donne, i proletari e i popoli delle "periferie" del mondo riuscirono a costruire questo fronte di lotta. Accadde, come documentiamo nello spillatino, nel fuoco dello scontro rivoluzionario del primo dopoguerra e sotto l'impulso dell'Internazionale Comunista di Lenin. Trovò un poderoso momento di coagulo nel congresso dei popoli d'Oriente convocato a Baku dall'Internazionale nel 1920. Allora il capitale imperialista riuscì a sconfiggerlo, soprattutto perché è riuscito a scavare un abisso tra le masse lavoratrici, femminili e maschili, dell'Occidente con quelle dell'Oriente.
Da
qualche anno, però, la crisi storica
in cui sta scivolando il sistema sociale capitalistico
ha cominciato a corrodere il muro di separazione eretto da allora. La Marcia
Mondiale contro la povertà e la
violenza delle donne ha rappresentato un primo momento di coagulo di questa
ripresa di mobilitazione. L'ipocrita
coro borghese sul burqa serve per mettere
il bastone fra le ruote a questo percorso
di unificazione di lotta a scala mondiale
appena avviato. Esso mette così in
risalto la differenza negli abbigliamenti,
tra il burqa e la minigonna, per
celare la comunanza di interessi di fondo tra le donne occidentali e quelle afghane.
Col pretesto del burqa si mira a far
dimenticare alle donne occidentale la
loro oppressione, a coinvolgerle in un protagonismo,
falso e deviato, al servizio dell'opera terroristica dell'imperialismo
ai danni delle sorelle afghane.
Le
donne occidentali hanno quindi interesse
ad opporsi all'operazione "libertà
duratura" anche perché essa è rivolta
contro loro stesse. Esse sono chiamate
a contribuire al rilancio della mobilitazione
contro la guerra del'Occidente al
mondo islamico in tutte le sue articolazioni,
a partire dalla solidarietà militante
alle donne del mondo islamico che
vivono ogni giorno in mezzo a noi, alle
immigrate.
Se
sapremo fare la nostra parte, le donne
dell'Afghanistan sapranno portare
avanti la loro battaglia, e quando si toglieranno
di nuovo il velo, non
sarà certo per concedersi da vinte
ai padroni occidentali ma per saldare il conto colla dominazione imperialista e
coll'oppressione patriarcale, e le
loro odiose derivazioni. Per
costruire insieme, donne bianche occidentali e donne di colore unite tra
loro e con i fratelli di classe maschi,
una nuova società, liberata da ogni
sfruttamento di classe, di razza e di sesso:
la società comunista.