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Governo D’Alema

DISORIENTARE E DISORGANIZZARE IL PROLETARIATO

Indice

"È un patto sociale che dà una comune responsabilità a governo e parti sociali e che serve a ridurre il costo del lavoro, (ma non a danno del salario e dell’equità sociale) e a ridurre la pressione fiscale per imprese e famiglie". Uno strumento per accomodarsi senza problemi in Europa e favorire la crescita dell’economia e dell’occupazione. Questo per D’Alema il "patto sociale" di Natale, una specie di porta d’accesso al paradiso: pace sociale, profitti per le imprese, salvaguardia delle condizioni dei lavoratori, lavoro per i disoccupati. I giudizi positivi sul patto si sono sprecati; padroni e padroncini, cooperative e sindacati, Banca d’Italia e Unione Europea, tutti hanno apprezzato: siamo usciti dagli anni bui, tutto va per il meglio, madama la marchesa. Le cose stanno davvero in questi termini? L’esame, sia pure sommario, dei contenuti del patto lo smentisce categoricamente.

Le imprese ottengono: migliaia di miliardi dello Stato in investimenti, sgravi fiscali sugli utili reinvestiti, riduzione delle tasse sugli utili (dal 37% al 27% in 10 anni), un alleggerimento del costo del lavoro del 3% (con il passaggio alla "fiscalità generale" degli assegni familiari e dell’indennità per maternità), aumento dei finanziamenti per la formazione (a scuole organizzate dalle imprese e dai sindacati). Un pacchetto di tutto rispetto, cui manca soltanto un incremento della flessibilità del lavoro, carenza della quale D’Alema s’è rammaricato, promettendo di colmarla al più presto. In compenso nel patto sono stati coinvolti anche gli enti locali, che per bocca del presidente della Regione Toscana, si sono impegnati a far discendere da ciò la possibilità di patti sociali regionali per lo sviluppo dei singoli territori. Se l’aumento della flessibilità è scarso, ci penseranno i "territori" ad accrescerla in concorrenza tra loro.

Per i lavoratori, il bilancio è magro: rinvio della riforma del welfare, conservazione dell’impianto contrattuale del ’93, con i due livelli (nazionale e aziendale) ma con l’inflazione programmata sulla base di quella europea, e la promessa di ridurre anche le aliquote fiscali sul salario. Il loro apprezzamento i lavoratori dovrebbero darlo, però, al fatto che sarebbe stato rintuzzato l’attacco di Confindustria per cancellare il livello nazionale di contrattazione.

I ritocchi al welfare -alle pensioni in particolare- sono stati rimandati, ma D’Alema continua a lavorare per preparare il terreno a una riforma che dia alle "persone" e non più alle "categorie" (pura assistenza per i poveri, quindi, e non più "salario sociale" su cui la classe operaia possa esercitare una qualche contrattazione). Su i "due livelli" D’Alema e Bassolino hanno più d’una volta dichiarato che l’entrata in Europa comporterà, prima o poi, la scomparsa della contrattazione nazionale a favore di quella aziendale (quella che si riesce a fare a malapena nel 30% delle aziende…), mentre Confindustria, da parte sua, dimostra, con il contratto dei metalmeccanici, come non abbia neanche sospeso la battaglia per svuotare sempre più la contrattazione nazionale. Per finire, anche le promesse riduzioni fiscali sono destinate a tramutarsi in aumento della tassazione (dove altrimenti prendere i fondi per finanziare gli sgravi alle aziende?), magari sotto forma di imposte indirette dai "nobili intenti", come la carbon tax varata con l’ultima finanziaria.

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Il "lavoro sporco" di D’Alema

Si potrebbe dire che D’Alema "bara", che fa con i lavoratori il classico gioco delle tre carte. Ma si direbbe una verità solo apparente. D’Alema, in effetti, non bara, ma porta avanti una politica "operaia", l’unica che, da un punto di vista riformista, si possa portare avanti nell’attuale situazione del capitalismo. Una volta fissato che la condizione operaia possa migliorare solo se, e quando, non determini intoppi al capitalismo, è inevitabile e logico farsi carico di aiutarlo a risollevarsi nei momenti di difficoltà. Ciò posto, a giusto titolo D’Alema può dire che la sua politica di piccoli cedimenti "difende gli operai", perché se non ci fosse il suo governo la classe operaia subirebbe attacchi ben più feroci, senza avere in contropartita neanche le sue fumose e improbabili promesse. Giustamente può dire che più fumose delle sue sono le promesse di un Bertinotti, il quale parte dal suo stesso assunto (difendere gli operai dentro il capitalismo) e vi rimane saldamente ancorato anche quando fantastica di "capitalismi non liberisti". Giustamente può dire che ancora più improbabili sono i metodi di calcolo cui certa sinistra sindacale (dentro e fuori le confederazioni) ricorre per dimostrare che si possa conservare certi livelli salariali o di welfare senza creare danni alle imprese e ai loro profitti.

Ma, altrettanto e più giustamente, noi possiamo dire che il vero danno che la sua politica fa al proletariato non è da ricercare tanto in queste "minuterie", quanto nella smobilitazione del suo apparato di classe che avviene, grazie alla politica dalemiana (coerente prosecuzione di quella di Togliatti, Berlinguer, Occhetto), tanto sul piano politico che su quello organizzativo. Sul piano politico con la sottomissione sempre più profonda delle ragioni operaie a quelle del capitale, sul piano organizzativo con lo smantellamento del fu-partito "operaio" (tra virgolette perché davvero operaio, comunista, il Pci non lo fu mai -i primi anni di Pcd’I sono tutt’altra storia- ma ha condotto sempre una politica riformista, ossia una politica che difendeva gli interessi di classe all’interno del mantenimento e del "miglioramento" del capitalismo, ciò che, appunto, definivamo "operaio"-borghese, e che, oggi, si può unicamente definire di "pallidissima sinistra borghese"). Questo il vero "lavoro sporco" che la borghesia ha affidato a D’Alema, prima con il governo Prodi e ora direttamente: smantellare ogni residuo politico e organizzativo di resistenza di classe, onde preparare tosature ben più pesanti quanto a calcolini. In gioco non è, infatti, solo la compressione dei livelli salariali, l’aumento dello sfruttamento, ecc. In gioco è l’obiettivo di intruppare il proletariato negli schieramenti di guerra, oggi contro le masse oppresse del terzo mondo, domani contro altri predoni imperialisti. Nessuno di questi eventi il proletariato deve affrontare ponendosi dal punto di vista dei suoi interessi di classe, ma dal punto di vista degli interessi nazionali: non in quanto classe, dunque, ma in quanto cittadino.

Il lavoro sporco D’Alema lo sta svolgendo egregiamente su tutti i piani. Il suo partito prosegue la riforma per dismettere ogni parvenza di partito di classe (anzi, con Veltroni, l’accelera), il governo continua a taglieggiare il proletariato sul piano materiale, e si pone in assoluta continuità con la politica imperialista dei governi precedenti, anzi, in virtù d’una presunta ripresa di dignità internazionale dell’Italia, si è spinto più oltre dello stesso Prodi nel consegnare chiari messaggi di minaccia all’Albania, alla ex-Jugoslavia (sul Kosovo), all’Iraq e allo stesso "ospite" Ocalan.

Sul piano internazionale i risultati sono, in verità, stati miseri, e l’Italia ha preso più d’un sonoro schiaffo in faccia, per esempio dalla Turchia, ma anche dalla stessa Albania, cui il governo italiano continua a fornire aiuti e assistenza, e, nonostante ciò, non riesce a impedire che sposti la sua politica sempre più verso gli interessi americani nei Balcani. Ma al di là dei risultati immediati, quel che conta per la borghesia è che la "sinistra" si faccia sempre più veicolo nel proletariato delle ragioni dell’interesse nazionale e delle ragioni della "difesa della democrazia" contro i "dittatori" alla Saddam o alla Milosevic. Compito cui la "sinistra" dalemiana si dedica diligentemente (da cui non si sottrae, pure con qualche inconcludente mal di pancia, neanche quella bertinottiana) e che predispone il terreno ai passaggi successivi, di maggiore aggressività politica e militare, la cui gestione sarà rimessa nelle mani di esponenti e partiti che potranno essere, su quel terreno, più affidabili e coerenti di una pur "riformatissima" sinistra.

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Nelle mani del Signore

La politica dei DS si sta dimostrando, insomma, per la borghesia italiana quanto mai utile. Non meno utile è quella di Cossutta che, tanto per dirne una, rinuncia, pur di non creare problemi al governo, anche alle sue ultime bandiere, come quella di chiedere che l’Italia non conceda alla Nato le basi per attaccare la Serbia. Ma la sua utilità ce l’ha anche la politica di Bertinotti, cui pochi mesi di permanenza fuori della "centralità governativa" sono stati sufficienti per convincerlo a chiedere di rientrarvi, a sua volta ridimensionando le sue richieste.
Questa politica di continuo arretramento della sinistra a pro’ della borghesia contiene, tuttavia, due intime e irresolubili contraddizioni.
La prima è che non riesce a bloccare la tendenza verso la frantumazione dei centri di interesse geo-politico. Le forze di maggioranza e quelle d’opposizione vanno indebolendo sempre più la già scarsa capacità di costruire un vero collante unitario, di rilancio "nazionale", e s’attorcigliano in sconci e tortuosi balletti di cui sembrano esse stesse perdere il senso (v. le diatribe tra Cossiga, Prodi, Marini ecc., il referendum anti-proporzionalista con le sue ricadute ulteriormente delegittimanti su tutti i partiti, il rischio dell’emergere dell’"uomo forte" …incarnato da Di Pietro…). In tutto ciò, il padanismo resiste nel suo zoccolo duro e rafforza la sua base politico-programmatica (anche sul piano della proiezione internazionale, come dimostra la ricerca di rapporti verso la Baviera e l’assunzione di un orizzonte sempre più "europeo" e antiamericano) in vista di momenti di precipitazione della crisi, e si vanno diffondendo linee di frattura anche più frammentate di quelle prospettate dal leghismo.

La seconda è che la distruzione di ogni vincolo di classe nel proletariato non coincide con la possibilità di conquistare in modo concreto e stabile l’adesione operaia alle necessità capitaliste: si distrugge l’organizzazione di classe, ma si continua un attacco strisciante alle condizioni proletarie. Tutto l’insieme della vita proletaria peggiora, non solo in fabbrica, e ciò porta il proletariato ad attenuare il legame con la "sinistra", a essere sempre meno disponibile a seguirne la guida. Ma la crescita dei problemi e delle contraddizioni non gli permettono di rimanere a lungo nell’immobilismo, e, infatti, anche se tra inevitabili contraddizioni e limiti, già parti del proletariato si sono messe in movimento per trovare soluzioni "vere" ai propri problemi, come per esempio seguendo il leghismo al Nord, e parti ancora maggiori saranno indotte a farlo, all’inizio dietro programmi e partiti ugualmente borghesi, ma potranno, prima o poi, incamminarsi su una strada coerentemente di classe.

La pace sociale che D’Alema promette è, insomma, fasulla; dietro il suo fragile velo già si agita l’esplosione di tutti i conflitti di classe. Chi potrà bloccarne gli esiti rivoluzionari? Il riformismo riuscì negli anni ’20 a impedire che le istanze di classe del movimento proletario si trasformassero in rivoluzione in Europa. Vi riuscì perché aveva tra le masse operaie un ruolo reale di partito "operaio"-borghese. Il riformismo di cui i diesse recitano ormai le ultime scene ha già perso questo ruolo. Toccherà a qualcun altro tentare di deviare quel processo dall’interno del proletariato (e di sicuro riemergerà, spontaneamente, dallo stesso scontro di classe un nuovo riformismo, riveduto e corretto, ma non meno infame negli scopi finali di difendere il capitalismo), ma l’unica cosa da fare è, al momento, mettersi, come si dice, "nelle mani del Signore". Non con una preghiera, ma chiamando in campo le sue armate sulla terra, quel Vaticano un tempo aborrito e vituperato.

A chi altri affidare il compito di tentare di tenere ancora unita e "in pace" (di classe) la società se non al "supremo magistero" papale? A chi altri chiedere un appello credibile in favore dell’unità nazionale se non alla Chiesa, timorosa dei problemi per il suo ruolo mondiale che un’Italia divisa le provocherebbe? A chi, inoltre, chiedere di tamponare, con la carità, le falle che si aprono nella società a causa della continua riduzione del welfare?

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I prezzi della benedizione

Col capo cosparso di cenere, D’Alema ha fatto anche questo passo. Ma il sostegno vaticano (non tanto al governo D’Alema, quanto alla sua politica di liberismo iniettato a piccole dosi nel tentativo di evitare una reazione di lotta di classe) non è senza prezzo, né senza condizioni. Un prezzo è la "parità scolastica", e si può anche accettare; dovendo tagliare la scuola pubblica, una concorrenza tra scuole "di livello" è pur sempre necessaria per garantire un ricambio della classe dirigente. Un altro prezzo è la disponibilità di fondi e la libertà d’azione (e correlata impunità) per gli ecclesiastici maneggioni (in solido con la Chiesa o in proprio): e anche questo passi, visto che data da quel dì. Un ulteriore prezzo è l’immigrazione; e questa, qualche problema lo crea. Non nella disponibilità del governo, invero, che all’appello del Papa per una sanatoria per il giubileo, ha risposto avviando le pratiche per regolarizzarne 300.000, ma per un altro motivo.

Se la Chiesa preme affinché i governi europei accolgano senza troppi limiti gli immigrati lo fa perché teme che l’inasprimento dell’aggressione imperialista al Terzo Mondo possa, prima o poi, accendere la miccia d’un vero processo rivoluzionario anti-imperialista. Per continuare a rapinare i paesi oppressi, meglio, consiglia il Vaticano, dare accoglienza a quelli di loro che, per sopravvivere, vengono in Occidente. Questa politica di accoglienza si rivela, però, un boomerang, perché le masse di immigrati in Occidente possono, a loro volta, trasformarsi in un vero e proprio esercito che lotta, anche da qui, contro l’oppressione imperialista ai propri paesi d’origine. Il terrore già attanaglia le borghesie occidentali ed esse lo affrontano spargendo la paura del "terrorismo arabo-islamico", e fomentando le campagne anti-immigrati in nome del binomio "immigrati-criminalità". Il vero scopo non è di rimandare tutti gli immigrati a casa, ma di tenerli rigidamente sotto controllo e sotto ricatto, sia per sfruttarli meglio, sia per impedirgli ogni libertà d’organizzazione e di lotta. E, ultimo ma non meno importante, per indicarli al proletariato come suoi nemici, onde evitare preventivamente la congiunzione di lotta proletari-immigrati, prodromo di quella, ancor più terrorizzante per la borghesia, di proletariato occidentale-masse oppresse dall’imperialismo.

La recente campagna sulla criminalità a Milano (non a caso esplosa dopo che gli immigrati arabi avevano in tutta Europa manifestato contro l’aggressione all’Iraq) ha dimostrato come la borghesia intenda "mantenere al loro posto" gli immigrati, e come riesca a sollecitare, per questo, anche un consenso operaio. La "sinistra" ha colto l’occasione per dimostrare come non sia da meno della destra a coniugare "ordine e sicurezza", sia prospettando l’aumento dell’uso e del potere delle forze dell’ordine, che un indurimento delle misure ai danni degli immigrati.

La Chiesa non è meno forcaiola dei governi nell’impedire che gli immigrati si diano proprie autonome forme d’organizzazione di lotta contro lo sfruttamento subìto qui, e contro l’aggressione imperialista ai loro paesi d’origine, ma teme le campagne che generalizzano troppo, perché, da istituzione veramente mondiale dell’imperialismo, percepisce come rischino di alimentare la contrapposizione tra due blocchi, paesi imperialisti da un lato, masse oppresse dall’altro, con l’inevitabile guerra da parte anche delle masse oppresse che da ciò deriverebbe.
L’invocata benedizione celeste potrà, forse, rallentare l’esplodere dei conflitti, disorientare ulteriormente il proletariato e sfiduciarlo nelle sue proprie forze, ma non potrà, in nessun caso, evitare che le contraddizioni di classe diventino vieppiù esplosive, creando, con ciò, le condizioni a ché il proletariato si determini a risollevare le sue bandiere di classe.

Su questo, e per nulla di meno, va impostata la battaglia di opposizione al governo D’Alema, un governo che conduce un attacco di classe a tutto campo, e che merita di essere contrastato nella sua politica economica quanto su quella sociale, sull’immigrazione, internazionale, ideologica. Opposizione a tutto campo sulla base di interessi esclusivamente di classe, che riscopra, nella lotta, la necessità di un programma di completa autonomia di classe sul piano politico (rigettando ogni riproposizione del riformismo), e di adeguati strumenti di classe, a iniziare dal partito comunista.

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