Nord-Est |
Petrolchimico, Aprilia, Fincantieri, appalti di pulizie...
LE LOTTE OPERAIE RIPRENDONO.
MA IN UN AMBIENTE FORTEMENTE INQUINATO DA AMBIENTALISMO, FEDERALISMO E AZIENDALISMO.
Molto meriterebbe dire circa l'evoluzione della situazione politica nel Nord-Est. Non perché vi siano sconvolgenti novità. Al contrario, vi si può toccare con mano quel processo di diffusione del leghismo nordista oltre la Lega, dell'autonomismo (veneto, friulano, trentino) al di là del nordismo, del localismo municipalista al di là e al di sotto dell'autonomismo regionalistico, che questo giornale sottolinea e denuncia da anni come antagonistico agli interessi della classe lavoratrice. Meriterebbe parlarne, anzi, proprio per evidenziare ulteriormente l'inarrestabile corsa allo scavalco che lo caratterizza, e che fa del secessionismo un fiume ormai in piena capace di trascinare "a valle" come detriti praticamente tutte, senza eccezioni, le componenti del "vecchio sistema politico". Con, per limitarci al Veneto, massimo centro nazionale di questa infezione, la giunta regionale FIAN che lancia la richiesta di statuto speciale; il partito del Nord-Est di Cacciari e dell'industriale Carraro che la fa propria; i parlamentari veneti che a Roma, per inseguirla, si fanno promotori dell"`autonomia speciale di ogni regione con semplice legge ordinaria"; e con la regione Veneto che a sua volta rilancia col binomio FI-Lega (veneta!) mettendo in pista un referendum popolare che, sul modello di quello del 1866, riaffermi il diritto all'autodeterminazione del "popolo veneto", un popolo che è tale, si dice, dalla notte dei tempi; e con il presidente della regione Galan che, messo davanti al contrasto con le posizioni nazionali del suo partito (FI), dichiara beffardo, da serenissimo veneto: "Io rappresento il Veneto, e non mi preoccupo per nulla che la linea di Forza Italia (!) a livello nazionale sia compatibile o no. Faccio gli interessi del Veneto, e basta".
Ed
invece non basta perché, contemporaneamente,
si è scatenata nella sua regione una
folle gara al campanilismo municipale, protagonista
stavolta soprattutto l'area ulivista,
con Cacciari, filosofo del più micragnoso
dei micro-capitalismi d'accatto, che inveisce istericamente
contro l'arrogante (manca solo che
aggiunga: comunista) centralismo
della regione Veneto; il medesimo
Cacciari che è a sua volta contestatissimo
dagli ulivisti di Verona, - chi la fa
l'aspetti-, perché da arrogante
centralista lagunare pretenderebbe
di indicare ai veronesi il candidato-sindaco
ideale, beccandosi sul muso un
"lui può comandare a Venezia, a
Verona comandano quelli di
Verona"; ed altrettanto contestato
da Illy e dalla sua ganga affaristica
che, anche loro, "fanno gli interessi di Trieste, e basta".
No
che non basta, disgraziatamente,
perché ecco che i due filoni di
melma autonomista e municipalista, per altri aspetti divergenti, confluiscono
nell'esaltare i "valori" e i "principi"
(parole di Bettin, musica di Rocchetta) degli "assaltatori" del
campanile di San Marco. E allora vai!,
vai con un fitto scambio di porno-"effusioni"
a mezzo stampa tra Rocchetta e Bettin
(gratificato dal primo figuro di
"esemplare"), tra Bettin e
Comencini, poi ancora tra Rocchetta ed
i rappresentanti dei "centri
sociali" del Triveneto, eredi di quell'Autonomia che aveva per programma
minimo, ma così minimo che
di meno non si poteva assolutamente,
il comunismo, ed ora ha come programma
massimo "l'autonomia
di ogni singolo individuo" quale
"base della crescita di comunità
solidali e aperte al mondo" (un
mondo, ora e sempre del capitale). Porno"effusioni",
dicevamo, intorno -oltre che ai
"valori" ed ai "principi" autonomistici da tutti costoro sacralizzati-
al destino giudiziario degli "assaltatori"
di San Marco, per i quali si chiede
alla unanimità clemenza a
condizione, sia chiaro!, che essi
riconoscano che in nulla vollero
sovvertire le leggi, e nulla vollero fare con l'esecrata (se viene da proletari)
violenza. Tutti veneti autonomisti
che rivendicano la "libertà" della "propria"
regione, certo, ma con l'animo da
questurini!
(Si
ricordi, a futura memoria, che l'OLI
è stata la sola organizzazione politica
a dissociarsi da subito dalla repressione statale contro questi lavoratori
"ribelli", senza concedere una
virgola alla loro illusoria e reazionaria
prospettiva di "riscatto".)
Molto
ci sarebbe da dire sugli effetti
devastanti che quest'autonomismo
trasversale, senile rifiuto organico
d'un capitalismo in preda a mille
tensioni digregatrici (potenziate
dagli spasmi della centralizzazione),
ha sull'unità e sull'organizzazione
della classe lavoratrice. Qui, però,
ci interessa di più segnalare, se
non altro, una clamorosa
contraddizione, e
cioé che, nonostante
tutto
ciò, stanno riprendendo nel Nord-Est
le lotte operaie. Stanno riprendendo
perché i processi indotti dalla
mondializzazione finanziaria del capitale mordono le carni della classe
lavoratrice anche là dove sono
capaci di "assicurare" (provvisoriamente)
ad essa un salario, e di produrre (in
modo altrettanto provvisorio) un
innalzamento medio dei suoi consumi. A
totale smentita sia della fine del
conflitto di classe, sia della
meccanica associazione (non marxista)
per cui potrebbero darsi lotte solo là
dove c'è un peggioramento delle
condizioni di vita.
Non
si tratta soltanto, e neppure soprattutto,
di lotte in difesa di "vecchi"
insediamenti industriali, come
quella degli operai del Petrolchimico
o dell'Arsenale e della Galileo, con
protagonista una classe operaia
anagraficamente e politicamente stagionata, e tuttavia tuttora capace
di stare in campo. Si tratta anche, se non principalmente, di lotte
"nuove", che preannunciano un nuovo
ciclo, tanto per quel che riguarda
i protagonisti sociali (giovani
operai, lavoratrici e lavoratori precari, proletari immigrati), quanto per gli obiettivi
che le connotano, tipici dell"era
della flessibilità".
All'Aprilia
di Noale-Scorzé si è lottato
contro
i
ritmi e i metodi
toyotisti per
conquistare il "tempo di respirare", come qualche mese prima alla
De Longhi era scoppiata un'agitazione per avere il tempo necessario
per... pisciare. Alla Actv, l'azienda
dei trasporti comunale di Venezia,
il conflitto riguarda l'allungamento
medio di 18 minuti al giorno dell'orario
di lavoro; alla Manutencoop l'uso e
l'abuso del cronometro anche nel
misurare (e tagliare) i tempi dei
lavori di pulizia; al porto, i turni sempre più disagiati di lavoro. Alla
Zignago di Fossalta, un'impresa
tessile, lo scontro (diversi giorni di
sciopero totale, come non avveniva
da anni) ha riguardato, oltre i criteri
del premio aziendale, i ritmi di lavoro.
E alla Zanussi di Susegana è passato
soltanto per un pelo, e per via
del metodo stronca-lotte di un referendum tenutosi sotto il ricatto dell'immediata
de-localizzazione in caso di vittoria dei no,
l'abbassamento al di sotto del
minuto del tempo delle singole
lavorazioni. Non meno
"post-moderne" sono le lotte operaie
scoppiate a Marghera-Mestre alla Fincantieri e negli appalti delle pulizie
all'Enel contro il sistema degli appalti, vero
e proprio perno della
"accumulazione flessibile".
Decine
di scioperi, quasi sempre ben
riusciti, migliaia di operai in piazza.
Non è poco, diamine, visto il generale
impantanamento proprio di questo periodo e l'abilità del governo
Prodi nel depotenziare il conflitto di classe e bloccare l'iniziativa operaia
(con l'ottimo aiuto, in ciò, di Rifondazione).
In molti casi, poi, cosa interessante
e anticipatrice, la lotta operaia è scoppiata a sorpresa in fabbriche con una lunga, o apparentemente salda, pratica
"consociativa", con sconcerto e dispetto delle direzioni
sindacali, ma a conferma della tesi nostra che il consociativismo
è solo una fase di passaggio del
sistema delle relazioni industriali che,
come negli USA, prepara la inevitabile
successiva fase della pedata nel sedere ai bonzi del caso, e della
più netta polarizzazione anche soggettiva delle "parti
sociali" che oggi innaturalmente
sembrano andare a braccetto. Altro
dato di rilievo è lo spontaneo
emergere, nei momenti più acuti dello scontro (sempre
nel quadro, si intende, di conflitti
che sono per ora di bassa intensità),
di una richiesta di appoggio e di unità rivolta
dai settori di lavoratori in lotta
agli altri lavoratori, in
particolare da parte delle proletarie
delle ditte di pulizia, degli operai
dell'Aprilia e di quelli del Petrolchimico.
E
tuttavia dobbiamo registrare una grandissima difficoltà di queste lotte
a rompere l'isolamento e a collegarsi tra
loro non solo quando hanno obiettivi
immediati diversi, ma anche quando
hanno i medesimi bersagli. Ad
ostacolare il processo di
unificazione delle lotte, a parte ogni altra considerazione storica e sulla
situazione internazionale, sono tre sostanze altamente
tossiche che inquinano l'ambiente politico e sindacale
operaio: l'ambientalismo, l'aziendalismo
e il federalismo.
L'ambientalismo
si sta segnalando per la sua attivissima
compartecipazione all'aggressione ai lavoratori
del Petrolchimico, che avviene formalmente "a difesa dell'ambiente",
salvo svolgersi di concerto con il
partito della speculazione edilizia e turistica,
tra i massimi inquinatori della
vita sociale. Una compartecipazione che si accanisce (divisione dei ruoli?) nella critica al sindacato dei chimici, non per la sua compromissione con le imprese ma per la
(molto relativa) forza con cui difende
sia i posti di lavoro di Marghera, sia
i risultati conquistati dalle lotte operaie
(e soltanto da esse!) in termini di
riduzione della nocività. Un accanimento
che è arrivato al punto di proporre un referendum "popolare"
per licenziare gli operai del Petrolchimico
con il consenso, oltre che di tutto il
ciarpame parassitario della società,
anche -è qui il crimine politico-
di altri lavoratori ingannati e
terrorizzati dalla campagna di stampa
dei potenti interessi che vogliono
fare di Venezia una seconda Amsterdam.
Un accanimento così militante che,
davanti alla pronta reazione della
classe operaia del polo chimico e
alla sua capacità di condizionare
il Pds e il governo, si spinge col solito Bettin fino a rilanciare la sua
provocazione a mezzo etere (la ABC, un
minuscolo canaletto "amatoriale" yankee implicato
nello spaccio transnazionale di informazioni avariate
del valore di migliaia di miliardi) invocando
la formazione di "un grande
schieramento di portata internazionale"
-domanda alla canea "ambientalista":
lo volete dotato anche di caccia
bombardieri, come strepitaste per i
serbi di Bosnia?che finalmente
riesca a radere al suolo la più
importante concentrazione operaia del
Nord-Est. Inutile aggiungere che
la retorica ambientalista, a dismisura amplificata dalla stampa della
Fiat e del gruppo De Benedetti, due
concentrazioni monopolistiche bianche
di bucato come fossero state lavate
con Dash, è
incapace e indisponibile a dire una
sola parola di numero contro il
capitale, vera fonte
di ogni nocività...
Non
meno esiziale per lo sviluppo della
potenzialità delle lotte è 1'aziendalismo,
che sistematicamente
subordina le necessità operaie alla redditività dell'impresa nella ricerca, una
vera quadratura del cerchio, di accordare
"equamente" le une con l'altra.
Prendiamo il caso-Aprilia. Qui,
dopo anni di intensissimo sfruttamento
attuatosi in un clima concertativo
contrassegnato dal massimo di "orgoglio aziendale" (la moto del campione del mondo Biagi, e tanto basti), è esploso in un attimo il malcontento accumulato per
anni contro gli insostenibili ritmi di lavoro
e contro la condizione di precarietà
(contratti stagionali, part-time, lavoratori di cooperative) di metà della
forza-lavoro. Quale lotta più
di questa poteva avere capacità di diffusione
in un Nord-Est dai ritmi di lavoro
ovunque frenetici, e dalla precarietà
del lavoro sempre più generalizzata?
Tanto più perché si trattava di
una lotta di giovane proletariato, così
come giovane è la composizione
media di tutto il proletariato del
Nord-Est (mai stati giovanilisti, però è un bel vedere una piazza di
scioperanti operai composta al 90% di
ragazzi e ragazze sotto i 30), inesperto,
poco o niente politicizzato, anche
-se volete- non molto teso, ma nello stesso tempo costretto
dalle
contraddizioni oggettive che vive in
prima persona a mobilitarsi contro
il "suo" padrone, contro le compatibilità aziendali e, benché non
ne sia consapevole e magari non lo voglia,
a fare politica. Ed invece la preoccupazione dei sindacati metalmeccanici
(totalmente assente il Sinpa, da questa come da tutte le altre lotte)
è stata quella di mantenere la lotta chiusa
entro un perimetro strettamente
aziendale, limitando ad un fatto
meramente dimostrativo il sostegno
esterno quando non si è potuto fare a
meno di chiederlo. E, peggio ancora,
allorquando l'azienda ha dovuto
piegarsi a concedere altri 15 minuti
di pausa, il "di più" richiesto
dai lavoratori (che prima ne avevano solo 14 su 8 ore), si è accettato
supinamente il principio aziendale spacca-classe dell'uso individuale
di un tempo di pausa conquistato collettivamente;
il che significa nei fatti un uso a
discrezione dell'azienda, se è vero
che il potere contrattuale di un singolo
lavoratore, specie di questi tempi,
è quel che è.
Anche nella lotta della Fincantiri, tuttora in corso, è ancora l'aziendalismo, come ideologia e come prassi (anche quando è una prassi di lotta), ad inquinare l'iniziativa operaia e sindacale. Certo la FIOM, che inizialmente aveva chiesto al prefetto e al questore (non è inventata, eh!) di mettere ordine negli appalti della Fincantieri, ha poi dovuto prendere iniziative di lotta, sia per i dinieghi del padrone di stato, sia perché tanti lavoratori degli appalti (per lo più immigrati di colore, slavi e meridionali) gli hanno chiesto di farlo, non volendo più tollerare i soprusi delle "proprie" imprese. Ma le ha prese avendo sempre cura di presentarsi come grande paladina degli interessi aziendali, e non è certo su basi del genere che si può portare fino in fondo la battaglia per parificare la condizione degli operai degli appalti a quella degli operai, diciamo così, "regolari", e che la si può, come si dovrebbe fare e vi sarebbero le condizioni per fare, generalizzare. In questo caso, inoltre, ha giocato e gioca una funzione inquinante pure una mentalità "federalista" largamente presente in modo "spontaneo" tra gli operai, e ben poco contrastata dal sindacato (anzi...), che guarda con ostilità e disprezzo gli operai meridionali e immigrati in quanto meri "portatori di problemi", invece di vederli come dei compagni di classe super-sfruttati da chiamare alla lotta comune.
E
lo stesso può dirsi della vertenza delle lavoratrici del pulimento degli
appalti-Enel nella quale, accantoa una bella
determinazione nel tener testa alle cariche intimidatrici della polizia
di Napolitano e alle condizioni
strangolatorie dettate dall'Enel a guida
dell'ulivista-ambientalista Testa (a
proposito... cattivo sangue non
mente), è stato presente -ed è stato rinfocolato dai galoppini cacciariani
dei "centri sociali"- anche un
atteggiamento non privo di veleni
leghisti verso i lavoratori del subappalto subentrante, di origine meridionale.
A cui era giusto, evidentemente,
impedire di entrare con picchetti
militanti, come si è fatto, non altrettanto -però- identificarli e bollarli
tout-court come crumiri (gli ex"antagonisti"
col telefonino lo scrivevano col k,
come Kossiga, Kissinger, Amerikkka,
dimenticando l'insignificante
particolare che si tratta di
salariati a salari di fame) perché magari estranei al "nostro"
territorio... da difendere dalle ditte straniere
e dai lavoratori stranieri.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ché i guasti del federalismo non si fermano certo qui. Qualcosa andrebbe detta, in particolare, su quella centrale di diffusione industriale del virus federalista che è la Cisl regionale. Lo faremo quanto prima. Ci basti per ora ribadire, in sintesi che: nel Nord-Est l'autonomismo ed il municipalismo impazzano. Nonostante ciò, per l'acutezza obiettiva della contraddizione capitale-lavoro, le lotte operaie riprendono. Ma tre fattori politico-ideologici altamente tossici, l'ambientalismo, l'aziendalismo e il federalismo ne impediscono il sano sviluppo, il coagulo e la necessaria proiezione a livello nazionale e sopra-nazionale. Prima si comincerà una radicale opera di disinquinamento e di bonifica, e meglio sarà per la classe lavoratrice. E' quanto non ci stanchiamo di ripetere là dove riusciamo a far arrivare (e, speriamo, ascoltare) il nostro "messaggio".