URSS

LA "PERESTROJKA" CAMBIA MARCIA:
DALL'ACCELERATO AL RAPIDO?

Indice


Nella storia ci sono anni che valgono meno di un giorno e giorni che valgono anni. L'Est europeo sta vivendo attualmente questa seconda situazione ed anche l'Urss, dopo un lento avvio - che ben si spiega con la complessità strutturale e le dimensioni elefantiache che la contraddistinguono - vi sta, presumibilmente, entrando in maniera irreversibile. I tempi del "cambiamento " si vanno accelerando. Con essi, anche i tempi della rivoluzione a venire.


Non basterebbero a questo numero cento pagine per commentare adeguatamente le novità registratesi sul versante est-europeo nell'intervallo che ci separa dal numero precedente. Il sismografo pare di continuo impazzito. Le nostre stazioni di rilevamento hanno fedelmente registrato (osiamo persino dire: anticipato) i fenomeni tellurici in atto. La rete di ritrasmissione e di ricezione, disgraziatamente, appare estremamente debole. Pazienza. La serie di scosse prossime venture varrà - lo speriamo! ad attivare l'una e l'altra.

Per forza di cose, in questo numero possiamo toccare appena gli sconvolgimenti in atto in Germania Est e tornare qui, assai di sfuggita, sul tema URSS, trascurando un'infinità di altre situazioni, legate per altro ad un unico epicentro (il "sistema socialista" di derivazione staliniana).

Rispetto all'ultima volta che ne abbiamo parlato, la situazione in URSS - di cui qui ci occupiamo - ha registrato un primo importante elemento di evoluzione dei fenomeni in corso con l'acutizzarsi della questione cosiddetta "nazionale": l'accelerazione del movimento "secessionista" nei paesi baltici e il riesplodere del "contrasto Armenia-Azerbajgian" oltre ogni livello precedente.

La questione "nazionale" si acuisce dal Baltico...

Di che si tratta? Nei paesi baltici, con la Lituania in avanscoperta, i "fronti nazionali" hanno di fatto soppiantato l'egemonia delle locali sezioni "comuniste" del PCUS e queste ultime stanno, da parte loro, separandosi dal partito "sovrannazionale" rivendicandosi interpreti delle esigenze di un "socialismo nel proprio paese" (come anche Stalin aveva insegnato), ma contro Mosca (come Stalin mai avrebbe ammesso nella pratica ed anche Gorbacev ha le sue difficoltà ad accettare).

I paesi baltici ricalcano, in pratica, quello che per la Jugoslavia è il "modello sloveno": una "regione" già vitalmente aperta e, teoricamente, integrabile nel mercato del vicino Occidente (mercato di merci e di idee, come sempre), che, senza recidere i propri legami con l'"Unione", mette piuttosto a frutto i differenziali di sviluppo che ha a disposizione per immettersi sul mercato occidentale profittando del mercato interno "sovietico" da cui riceve i "titoli" per farlo profittevolmente. Una larga autonomia regionale era già cosa data. Di qui si è passati al "doppio mercato", grazie al quale marchi e dollari stanno facendo letteralmente a pezzi le armate del rublo, sino al ventilato varo di una "moneta nazionale" di scambio baltica, per definizione indipendente dal rublo e dipendente dalla moneta occidentale (un po', per l'appunto, come la "lipa" slovena).

Ora neanche questo basta alla borghesia baltica. Di qui la separazione del PC lituano dal PCUS, come quella della Lega slovena dalla LCJ, dopo aver ceduto al "fronte nazionale" il controllo egemonico, economico e politico, del paese. Il PC lituano. in una parola, rinunzia volentieri al "monopolio politico" subordinato al PCUS e, quindi, a Mosca, in nome del monopolio degli interessi lituani (in senso borghese, va da sé): nel cambio c'è tutto da lucrare, evidentemente - altrimenti non si comprenderebbe la "svolta" se non come "autocastrazione" -, proprio in quanto la "specificità comunista", di partito, del PC lituano è subordinata all'interesse nazionale. Meglio restare "minoranza lituana" che "maggioranza comunista" a servizio del PCUS e di Mosca. È lo stesso motivo che ha spinto la Lega slovena a rinunziare al "monopolio politico" del partito "federale", e quindi anche del "proprio" partito, per farsi espressione minoritaria degli interessi borghesi sloveni: un 10-15% di suffragi con corrispondenti percentuali di compartecipazione al potere "nazionale" (per varie ragioni oltre la percentuale dei voti) è preferibile ad un "monopolio in proprio" tributario della Federativa o, più francamente, della Serbia.

Ovvio che questa ristrutturazione "nazionale" del partito significa anche un suo cambiamento formale di indirizzi e programmi. L'ex-Lega slovena l'ha subito tradotto in un mutamento del nome e delle linee d'indirizzo, assumendo anche nominalmente il modello occidentale e ad esso tributando il debito omaggio con la sotto-dicitura "Europa oggi" ("Dalla Jugoslavia all'Europa", si è detto apertamente) per marcare la propria distanza dal "modello balcanico". Trasportate questo esempio al rapporto stati baltici-URSS, partiti "comunisti" baltici-URSS e capirete immediatamente di che si tratta.

A tanto si è arrivati che il "nuovo partito" lituano, come quello sloveno, si dà una rigida fisionomia "nazionale" e neppur territoriale: i "comunisti" russi qui presenti (come quelli serbi in Slovenia) non hanno praticamente diritto di far sentire la loro voce in un partito comunista che è baltico e non del territorio baltico. (Tra parentesi, notiamo di sfuggita come il Pci abbia di recente "ritirato" i "propri" compagni di Francia dal Pcf: cosa che non ha molto a che fare con le divergenze col Pcf, ma con una precisa tendenza alla "nazionalizzazione" - "gli italiani appartengono all'Italia"-).

Naturalmente Mosca ha condannato questa "secessione". L'ha fatto però secondo criteri "omologhi" a tale linea di percorso: in nome dei "superiori interessi nazionali dell'URSS", attizzando ulteriormente, se possibile, i sentimenti "indipendentisti". E l'ha fatto senza poter mettere in campo alcuna contromisura coattiva (un po' come Milosevic versur Kucan). La cosa la dice già lunga sulle capacità "centralizzatrici" effettive di cui oggi dispone l'URSS .

...al CAUCASO

Nel Caucaso si è assistito, sotto altra veste, ad un analogo processo.

L'Armenia ha dato fuoco alle polveri "rispedendo a casa" un quarto di milione di lavoratori azeri di stanza nel paese. "L'Armenia agli Armeni!". Il grido di battaglia non era rivolto unicamente, o principalmente, contro la supposta "invadenza" azera, ma contro il peso del "centralismo" moscovita sull'Armenia. Vi hanno risposto simmetricamente gli azeri, sollevando, forse neppur troppo gentilmente, le "proprie" rivendicazioni nazionali antiarmene per marcare innanzitutto il proprio diritto "nazionale" a gestirsi da soli gli interessi dell'Azerbajgian al di fuori di ogni tutela moscovita.

Anche qui, il dato "sconcertante" sta nell'incapacità di Mosca di ripristinare la propria autorità sui due paesi ribelli. Da che dipende? Una conclusione s'impone: dalla fragilità di un processo di unificazione sovrannazionale sul terreno economico, sociale e quindi politico, "culturale" che fosse realmente in grado di rendere Armenia e Azerbajgian strutturalmente legati ai meccanismi di produzione e distribuzione di un sistema "pansovietico".

Questa è la sola conclusione che si può trarre dalla constatazione, tanto per fare solo un esempio, che tra gli azeri tornano a sventolare le bandiere dell'Islam. Questo non è un caso né può essere imputato alla "congenita individualità asiatica degli azeri", come hanno sostenuto, inorriditi, i commentatori borghesi (anche quelli di Mosca!). Un'URSS che, in oltre settantanni di potere, non è riuscita ad assorbire la "cultura islamica" vuol dire che è mancata, ancor prima che ai compiti del comunismo (estranei dall'origine allo stalinismo) agli stessi compiti di un capitalismo modernamente attrezzato. Basti fare un confronto con l'Europa capitalista per rendersene conto.

Diciamo pure che persino per noi, che da sempre abbiamo negato all'URSS non solo la qualifica di "socialista", ma quella di un preteso "supercapitalismo di stato", la cosa si è presentata come eccedente il livello di conoscenza dei dati strutturali reali (cui non bastano le statistiche ufficiali) e di analisi attualmente alla nostra portata. Converrà rifletterci bene ed a fondo, anche se ciò torna a conferma e non smentita dello schema interpretativo cui ci rifacciamo.

L'Occidente aiuta Gorbacev per aiutare... se stesso

A questo punto c'è da riflettere su un'altra questione, e cioè sulla concreta attitudine assunta dall'Occidente nei confronti di questo riaccendersi delle conflittualità "nazionali" in URSS.

Non è un mistero per nessuno che l'Occidente ha, in tutti questi casi, dato una mano a Gorbacev. Ai baltici si è detto: bene che voi rivendichiate le vostre autonomie; ne avete tutti i diritti, ma attenti a non forzar troppo la mano, perché una vostra secessione dall'URSS non è, non può esser messa all'ordine del giorno. Ancor più tangibile l'appoggio a Mosca nei suoi tentativi di "regolare" la questione caucasica nel senso della difesa dell'integrità territoriale dell'URSS. Anzi, mentre per gli armeni si è abbozzata una qualche simpatia (purché non si vada troppo oltre...), verso gli azeri si è subito assunto il viso dell'acme. Non è parso vero di "leggere" nella faccenda in oggetto la "provocazione" azera o, francamente detto, islamica cui reagire all'occorrenza coi carri armati. Persino papa Woytila è entrato in campo rispolverando la "cristiana" legittimazione della "guerra giusta" (si sarebbe anche potuto dire "santa") quando un "potere legittimo" è minacciato dall'"eversione".

Di questo atteggiamento vanno capite le ragioni profonde.

La marcia del capitalismo occidentale verso Est prosegue implacabile, oggi più che sempre. Essa ha per posta la conquista dell'intiero mercato potenziale sovietico (lo smantellamento del "sistema comunista", nelle sue strutture prima che nelle sue ideologie, costituisce la premessa di questo obiettivo, non il risultato cui guarderebbe la "grande crociata" per la presunta affermazione di presunti "valori democratici" dell'Occidente). A sua volta, da questo terreno esso dovrebbe stringere più efficacemente l'assedio attorno alle mura della Cina, entro le quali era già precedentemente penetrato coi suoi battaglioni d'assalto, senza però riuscire a spingersi oltre (sul perché si veda il numero precedente del nostro giornale). In più, questa dilatazione ad Est dovrebbe combinarsi con il mantenimento del proprio "ordine" entro i contini dell'Est e al di fuori di esso.

Nel giro di pochi anni, il cuscinetto protettivo dei "paesi satelliti" dell'URSS si è andato dissolvendo: Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria ed, infine, il centro di esso - la RDT - sono state attratte nel girone infernale del "mercato occidentale", con tutto il codazzo dei suoi "valori ideali" al seguito. L'URSS, in preda ad una marasma economico, sociale e politico interno, ha dovuto accettare di pagare questo prezzo, pesantissimo ad un tempo e "liberatorio" dall'altro (mantenere il cuscinetto costava oramai in termini economici - e non solo! - più di quanto potesse rendere in termini di difesa strategica e la rinunzia ad esso era un passo obbligato per l'accesso ai necessari capitali occidentali). La frantumazione dell'URSS al suo interno non è invece un prezzo che si possa pagare. Magari Ronchey l'ha suggerito: accetti l'URSS di ridursi alla sola "grande Russia" e come tale entri a pieno titolo in Europa. Il fatto è che ciò significherebbe direttamente entrarvi da colonia. In più, un tale rattrappimento dell'URSS non costituirebbe per l'Occidente un boccone sufficientemente appetibile economicamente mentre risulterebbe assai rischioso politicamente. Giustamente: perché esso mira all'insieme di quel mercato ed al controllo, in esso, di realtà "nazionali" che sarebbe pericoloso lasciar andare per conto loro. Pensiamo proprio alI'Azerbajgian: si può accettare che esso si stacchi dall'URSS, facendo mancare al capitale occidentale una fonte inesauribile di sovrapprofitti e magari rinfocolando in quell'area una situazione di conflitto anti-imperialistico nel nome dell'Islam? La risposta non lascia dubbi.

Gli stessi paesi baltici sono ottimi come trampolino di lancio verso il cuore di quello che fu 1'"impero del male"; rappresenterebbe solo un problema aggiuntivo una loro immediata "integrazione" a sé nel mercato occidentale (che, per forza di cose, potrebbe avvenire - se mai potesse darsi - unicamente all'insegna di una loro "polonizzazione", o "latinoamericanizzazione" come forse è più lecito dire).

Va da sé, infine, che un processo di smembramento dell'Unione attizzerebbe fatalmente la reazione antioccidentale dei centri di potere della "grande Russia", con l'immediato innalzamento di un nuovo "muro" e (quel che più conta) il riaggancio "internazionalista" alla lotta "anticapitalista", "anti-imperialista", di tutti i "paesi oppressi" (quelli che Gorbacev ha dovuto svendere al tavolo delle trattative coi padroni dell'Occidente).

A1 contrario, l'appoggio a Gorbacev in questo frangente contribuisce a far pesare le contraddizioni in cui si dibatte per accelerare il cammino della "perestrojka" in quanto esposizione ad Ovest ed a mantenere l'ordine internazionale del capitale. Né Bush né Woytila si sono mossi per amore del "caro Gorby" ed anche dal Pci è venuta una verità: "Dobbiamo aiutare Gorbacev perché il "suo" successo interessa anche e in primo luogo noi."

Si rafforzano le spinte dal basso verso il "libero mercato"

Veniamo così all'ultima novità: il Pcus rinunzia al proprio monopolio "per legge" sulla società; il partito si separa dallo Stato; il pluralismo politico è finalmente sancito dalla Costituzione.

Non vi è chi non veda che questa riforma politica, certamente sensazionale per un paese con "quella" storia alle spalle, sta tutt'uno con l'accelerazione della riforma economica in direzione del "libero mercato". Riconoscere l'autonomia dello stato dal partito che pretendeva dirigerne la "pianificazione", non ha altro senso che quello di riconoscere la sua funzione di espressione degli interessi privati di una borghesia incontenibile nel quadro del "piano" e chiamata a svolgere per suo conto l'unica, necessaria opera di "pianificazione" plausibile: la concentrazione e centralizzazione dei capitali dal centro sino all'ultimo angolo dell'Unione. Non si può dire che su questo non abbia "positivamente" influito anche l'esperienza del conflitto coi paesi baltici e nel Caucaso.

Il pluralismo politico, d'altra parte, è l'altra faccia del riconoscimento (che data dagli esordi della "perestrojka") che la società sovietica è divisa in classi e dall'ulteriore riconoscimento (questo più fresco) che non solo questa divisione è antagonista, ma che da questo antagonismo devono poter "liberamente" emergere e competere le forze reali chiamate a trar fuori la "perestrojka" dal pantano di compromessi in cui sin qui si è battuta.

Naturalmente, tra quest'ordine di principi e una loro conseguente messa in atto ci corre, e non è detto che per Corbacev tutto debba scivolar sull'olio. Abbiamo sempre rilevato che una "perestrojka" in profondità è, al tempo stesso, una strada obbligata per il capitalismo sovietico e la scaturigine di mille contraddizioni, a fronteggiare le quali s'impongono spesso battute d'arresto e mezzi ritorni all'indietro. Lo scioglimento di questo rebus non è dato né in assoluto

né una volta per tutte in un unico senso, anche se è stabilito che un "ritorno all'indietro" non gioverebbe in alcun modo a ripianare le attuali difficoltà dell'URSS e varrebbe solo a rendere incandescente a tempi ravvicinati l'intiero scenario internazionale.

Non ci è concesso tirare oroscopi. Ci basta e avanza vedere come le cose procedano lungo una strada di cui abbiamo ben chiara la linea di marcia. L'analisi in proposito ci dice che la "perestrojka" è posta oggi di fronte alla necessità di cambiar treno e passare dallo sgangherato accelerato su cui sin qui ha proceduto al direttissimo o addirittura al rapido.

Non lo diciamo basandoci sui risultati delle schermaglie a suon di voti nel CC e nel Politburo del PCUS, ma sull'analisi dei dati strutturali dell'economia e della società sovietica.

Negli ultimi due anni, nonostante si sia andati avanti a suon di mezze misure e ad onta dell'assenza di sconvolgimenti statisticamente apprezzabili nella distribuzione del potere economico secondo criteri giuridici di proprietà, si sono realizzate alcune importanti premesse in vista dei mutamenti di fondo che s'impongono. Intanto si sono accresciute le autonomie aziendali e settoriali e, ancor di più, si è fatto robusto il sentimento dei quadri dirigenziali, tecnici e persino di settori di lavoratori salariati specializzati di appartenenza alla propria azienda, da curare quale entità privata nell'ambito economico. In secondo luogo, il settore cooperativo o privato-personale tout court è andato affermandosi molto al di là di quel che dicano i numeri truccati delle statistiche (sia perché queste ultime non computano le molte voci che entrano nel cosidetto mercato "occulto" sia perché si mistificano come appartenenti al "settore socializzato" tante realtà - in particolare nel settore contadino - che di statale o financo di cooperativo in senso proprio han sempre meno). Crediamo, inoltre, di poter dire che esso sta superando la primitiva caratterizzazione di intermediazione speculativa che ne aveva contraddistinto le prime forme.

Inoltre (ed è elemento-chiave di svolta) sono esponenzialmente cresciute nella società le istanze verso il "libero mercato" ed esse hanno cominciato ad organizzarsi e far sentire la propria voce un po' dovunque. La mentalità del "salariato a vita dello Stato" si è andata affievolendo, in particolare nei potenziali ceti medi, che sono oggi i più attivi nel "tirare" la "perestrojka". Gli stessi operai - ossia la classe immediatamente e in prospettiva meno favorita dalla "perestrojka" - non sembrano rappresentare più una indistinta minaccia antiriformatrice. Il pericolo di un "insano 'compromesso' tra lavoratori e burocrazia" (L'Unità, 9 febbraio) è andato, nonostante tutto, affievolendosi, soprattutto dal momento che i settori burocratici non hanno saputo mettere in piedi un "blocco d'opposizione" in grado di catalizzare un seguito di massa nella classe operaia ed, anzi, si sono spesso trovati nel mirino di quest'ultima; il che ha indirettamente favorito l'opera di neutralizzazione e ridimensionamento del peso degli apparati da parte del potere centrale.

Non è senza significato che gli operai sovietici (accusati di disaffezione per il lavoro, mancanza di disciplina ed alti tassi d'assenteismo: vedi num. dell'Unità cit.) stiano "dimostrando un certo interesse per il lavoro, purché in aziende cooperative o private, mentre il 36% della popolazione (il 70% dei giovani) dichiara di sperare in esperienze di lavoro all'estero". Di qui l'emergere più forte delle istanze che stanno alla base della "perestrojka": "Rompere le rigide strutture burocratiche dell'economia di comando e tentare di porre le premesse per una nuova cultura del lavoro (!), creando uno stato di diritto e introducendo "elementi di mercato" per rivitalizzare l'economia socialista."

Parta dunque il rapido della "riforma". Lo aspettiamo al capolinea.