Quanto sta avvenendo in questi ultimi tempi nel sindacato, il "nuovo corso" del Pci e il riflesso non certo galvanizzante del tracollo del presunto socialismo dell'Est rendono complicato per la classe scendere in campo con decisione e compattezza. Nell'intesa con la Confindustria le Confederazioni sindacali assumono "come parametri dei propri comportamenti nelle relazioni contrattuali, la coerenza degli obiettivi di politica economica e di competitività internazionale". Ma come si può pensare di affrontare uno scontro contrattuale con i padroni a partire dalla difesa di "interessi comuni tra classe operaia e capitale"? Il proletariato arriva alla scadenza dei contratti con un carico contraddittorio: sfiduciato ma non battuto in partenza.
Il rinnovo dei contratti nazionali di categoria rappresenta un importante appuntamento per la classe operaia, come pure per i padroni ed il governo. Dal potente risveglio del '69 in poi, molti dei momenti più "caldi" della storia del movimento operaio sono legati a questo evento. Sono oltre 10 milioni i lavoratori interessati a questo rinnovo in Italia; oltretutto il fatto che a questa scadenza arrivino nello stesso momento anche gli operai tedeschi e inglesi fa assumere all'avvenimento un carattere non solo nazionale.
Che il proletariato non arrivi all'apertura di questa tornata contrattuale nelle condizioni ottimali è cosa evidentissima, ma allora è tanto più importante capirne a fondo le ragioni, analizzando tutti i soggetti in campo.
Capitalisti e governoPer i capitalisti italiani l'89 è stato ancora più propizio del già "aureo" '88, un nuovo anno di successi per molte grandi e piccole aziende. Il settore meccanico ha registrato una crescita dell'export del 21,6% - più di 53 mila miliardi, un terzo del totale delle vendite italiane all'estero -; nel settore siderurgico le esportazioni hanno avuto un incremento del 35%; la FIAT può vantare un utile operativo intorno ai 5 mila miliardi - nell'88 erano 3820 - vendendo in Europa oltre 2 milioni di auto.
Senza dimenticare che il capitalismo occidentale inizia a incamerare i benefici derivanti dall'apertura dell'URSS di Gorbaciov: vedi l'accordo con la FIAT per la costruzione di 300 mila vetture l'anno, che costituisce la più grande joint-venture che un'impresa occidentale abbia mai realizzato, con un investimento di 1800 miliardi di lire; oppure l'intesa con Cardini per la produzione di cereali.
Ma nonostante i risultati che possono vantare, i padroni non si trovano di fronte a un nuovo e duraturo ciclo di sviluppo. Se il capitale imperialista d'occidente ha, momentaneamente, potuto esportare la crisi a Sud e a Est, evitando alle metropoli, per ora, i passaggi più duri, non per questo ha superato la crisi apertasi alla metà degli anni '70.
In più, le cattive notizie sull'andamento dell'economia USA, le incerte prospettive per alcuni settori chiave dell'economia occidentale, l'avvicinarsi del "fatidico" '92 e l'inasprimento della concorrenza, spingono i padroni a prepararsi alle difficoltà presenti e ancor di più a quelle future.
È in questo quadro oggettivo che il padronato si accinge alla presente tornata contrattuale e così apre il fuoco di sbarramento puntando alla riduzione del costo del lavoro, alla riforma della struttura del salario e della contrattazione, alla totale flessibilizzazione dell'utilizzo della forza lavoro e ponendo precisi limiti alle rivendicazioni sindacali.
La Confindustria ha giocato d'anticipo: a luglio ha minacciatola disdetta della scala mobile, poi ha portato l'intero sindacato ad una trattativa sul costo del lavoro con l'obiettivo di acquisire il più possibile sia dal governo che dalle Confederazione. E così è stato: il padronato ha strappato subito 4250 miliardi per la fiscalizzazione degli oneri sociali, ha ottenuto che questa fiscalizzazione diventi strutturale, e otterrà altri risparmi con la completa riforma degli oneri sociali.
Da parte sua il governo Andreotti, temendo una continuità della mobilitazione operaia, ha operato per frenare ogni possibile conflitto sociale, evitando misure particolarmente odiose ed eclatanti come quelle che avevano scatenato la lotta contro i ticket e preoccupandosi dl non entrare in rotta di collisione con il sindacato. Non è stato questo un compito particolarmente difficile bastando convocare qualche volta di più del precedente governo De Mita i sindacati, potendo predisporre una Finanziaria tutto sommato "leggera", ma soprattutto potendo contare sulle forti attestazioni di credibilità da parte di Cisl, Ui1 e componente socialista della Cgil - significativa a questo proposito l'autentica ovazione tributata ad Andreotti dal congresso Ui1 -. Il governo ha potuto assumere così un ruolo da protagonista nella trattativa sul costo del lavoro: dopo cinque mesi di discussioni, l'impasse è stata risolta con la concessione da parte governativa dell'attesa fiscalizzazione.
La politica fiscale del governo, con l'impegno della completa riforma degli oneri, rappresenta ancora una volta un'operazione di drenaggio di ricchezza a scapito del salario e della spesa sociale a favore dei profitti e della rendita; è cioè sostegno al capitalismo italiano nella lotta sui mercati. La fiscalizzazione degli oneri sociali, con il pretesto demagogico dell'alto costo del lavoro che impedirebbe la crescita dei salari, trasferisce oneri dalle imprese alla fiscalità generale pagata poi dal lavoro dipendente!
Il sindacato ha sopportato nei fatti questo ulteriore regalo ai padroni ottenendo in cambio... l'apertura "senza traumi" della stagione contrattuale! Una sorta di "scambio" tra riduzione del costo del lavoro per le imprese e avvio dei rinnovi; e pensare che la Cgil era partita a settembre definendo quello sul costo del lavoro un semplice confronto! Il tipo di relazioni sindacali che si viene affermando mira al coinvolgimento del movimento operaio nelle scelte governative di politica economica e nel farsi carico delle condizioni di competitività e di produttività delle imprese e dell'economia nazionale.
Chi esce rafforzato da una tale politica non è certo la classe operaia, che non ha niente da guadagnare dal mantenimento di una pace sociale che, se all'immediato può essere pagata con qualche spicciolo, non migliora (anzi...) le proprie condizioni di lavoro e soprattutto la espone ai prossimi attacchi priva di capacità politica di difesa dei propri interessi e di ripresa della propria forza.
Una politica sindacale sempre più subordinata agli interessi nazionaliQuanto sta avvenendo in questi ultimi tempi nei sindacati rende ancor più complicato, per la classe, scendere in campo con decisione e compattezza e con una precisa linea unitaria di rivendicazioni.
In questo senso è stato emblematico il congresso della Uil dove "rappresentanti dei lavoratori" della più piccola delle confederazioni, con consensi operai alquanto modesti, applaudono con calore il governo dei padroni per incoraggiarlo a far bene, e scaricano tutti i propri colpi sul corpo già non troppo in salute della Cgil. Il sindacato dei cittadini porta ora, a quattro anni da quella che Benvenuto aveva definito "l'intuizione", alle estreme conseguenze la sua linea: "concertazione" con governo e Confindustria e "cogestione" nei luoghi di lavoro ("il conflitto è ormai un vecchio arnese"). Calda accoglienza per Andreotti, apertura di credito verso l'esecutivo (riguardante tutti gli aspetti della politica economica e sociale), ampie disponibilità verso la Confindustria (non è un caso che dalla tribuna congressuale Patrucco abbia riconosciuto i "meriti" di Uil e Cisl), definiscono questi come veri e propri sindacati collaborativi, non conflittuali, organizzatori del disarmo rispetto alla difesa degli interessi di classe.
Un congresso emblematico non solo della funzione e della politica dei capi della Uil, ma anche del fatto che nella massa dei lavoratori, certo non tra i più sfruttati o i più avanzati, la sostanziale identificazione con gli interessi aziendali e nazionali è una sirena che ha un certo ascolto. È evidente che i margini e le disponibilità acquisite dalla "5a potenza mondiale" hanno un qualche riflesso sulla coscienza dei lavoratori, rappresentano la base materiale su cui possono poggiare i messaggi sindacali. Dove siano arrivate Cisl e Uil in questa linea di aperta collaborazione è rappresentato altrettanto bene dalla vicenda sugli infortuni alla FIAT, dove assieme al sindacato giallo Sida si sono mobilitate in difesa della direzione aziendale, chiedendo il ripristino della situazione precedente alle denunce della Cgil.
In questo quadro la Cgil è come presa tra l'incudine e il martello. In maniera sempre più accellerata col passaggio della direzione a Trentin si è andata approfondendola subordinazione della difesa operaia alle necessità aziendali. Ma i passi pur notevoli che sono stati compiuti e si compiono non bastano mai: la Cgil rimane così a metà del guado (o meglio oltre la metà del guado, ma senza poter raggiungere la meta) stretta tra l'accettazione delle priorità aziendali e il richiamo e le aspettative operaie. La Cgil viene attaccata non tanto per i suoi dirigenti (Benvenuto e Marini cosa possono rimproverare a un Del Turco o a un Trentin?), quanto per la sua base considerata ancora troppo conflittuale e "rissosa", capace "solo di dire dei no" di fronte al "nuovo".
Così la Cgil attaccata su tutti i fronti, rinunciataria a chiamare gli operai alla mobilitazione, cede passo dopo passo alle richieste di Cisl, Uil e socialisti della Cgil. Significativa dell'inconsistenza del riformismo, la linea Trentin è incapace ed impossibilitata a sottrarsi al risucchio e al ricatto brutale di queste forze tanto nei contenuti e nei metodi della lotta, quanto sul terreno decisivo della democrazia sindacale.
Indicativo al riguardo è estemporaneo sussultare a settimane alterne e a categorie alterne della Cgil. Gli esempi certo non mancano: la più grande organizzazione di categoria, la Fiom, si è spaccata sulla definizione dell'ipotesi di piattaforma contrattuale; il segretario aggiunto Cerfeda, socialista, la ha attaccata senza mezzi termini, definendo le proposte in essa contenute come "vecchie, fuori mercato, incompatibili". Anche Del Turco non si è lasciato sfuggire l'occasione di criticare le decisioni della categoria, definendole "massimaliste". Queste prese di posizione non sono certo prive di conseguenze, sia in quanto creano disorientamento nella base operaia, sia in quanto, accreditando le posizioni più apertamente collaborative di Fim e Uilm, non preparano il terreno per un'efficace difesa proletaria. Ma le tensioni e i contrasti non riguardano solo le categorie, se è vero che la Conferenza d'organizzazione tenuta a Firenze a metà novembre ha rischiato di essere rinviata proprio a causa di queste differenze e per le dure polemiche interne. In questa situazione è naturale che abbia assunto sempre più peso la componente socialista con Del Turco in testa.
In un clima simile sono state definite le piattaforme di categoria. Ancora una volta è la vicenda dei metalmeccanici quella che meglio mostra le tendenze in atto. Per questa categoria tutta una prima fase vede la definizione di tre diverse piattaforme, con un crescendo di polemiche tra Fiom, Fim e soprattutto Uilm. Quest'ultima punta essenzialmente a più forti aumenti salariali - ma con l'allungamento del periodo di vigenza del contratto a quattro anni e con la rinuncia alla contrattazione articolata - e lasciando mano libera ai padroni sul terreno della flessibilità. Fiom e Fim, seppur in modo diverso, si attestano sulla ricerca di un maggiore equilibrio tra le richieste salariali e il tema della riduzione oraria. Per tutta questa fase ci si è guardati bene, però, da parte delle tre Confederazioni dall'andare nelle fabbriche a presentare le proposte e dal cercare un coinvolgimento dei lavoratori nella definizione delle linee da seguire. Così, tenuti gli operai ed anche i delegati nella più completa disinformazione, si è arrivati all'ennesima mediazione di vertice, tutta giocata sulle spalle dei lavoratori.
La mediazione unitaria raggiunta prevede infatti:
- modeste richieste salariali: 260.000 lire medie, a regime nell'arco di 4 anni e non più di 3, che diventano 215.000 per il 3° livello e 235.000 per il 4°, che inquadrano la massa operaia; la riparametrazione diventa 100-250 (attualmente è 100-200), con un particolare riguardo per i "quadri" per i quali si richiede un'indennità aggiuntiva di 90.000 lire;
- contenute riduzioni d'orario: 64 ore richieste per giungere - insieme alle precedenti riduzioni non godute e ai Permessi Riduzione Orario goduti individualmente - ad un "orario di riferimento" di 37,5 ore settimanali; le modalità concrete di attuazione dell'orario potranno essere definite a livello aziendale in base... alle esigenze dell'impresa. Ampie disponibilità alla "definizione di regimi d'orario e delle condizioni di flessibilità" con uno speciale trattamento riservato al Mezzogiorno per cui si prevedono "particolari regimi di orario che consentano un più elevato utilizzo degli impianti"!
- Le solite generiche richieste sui diritti all'informazione, alla formazione, con un'attenzione circoscritta alle sole figure "deboli" (portatori d'handicap, tossicodipendenti), ma non una parola sulle condizioni di lavoro, sui ritmi, sui carichi, sulla nocività di fabbrica, sulla sicurezza e gli infortuni!
Con l'assemblea dei delegati a Montecatini, anche la Fulc (chimici) ha approvato la piattaforma e avviato lungo analoghe direttrici la stagione dei contratti: 250/260 mila lire medie di aumento con riparametrazione 100-250; 38 ore per i giornalieri; diritti: tutela delle figure più deboli, controllo preventivo sugli investimenti, diritti sindacali nelle piccole imprese.
Il sindacato si presenta, quindi, ai rinnovi contrattuali con piattaforme e richieste modeste e in un quadro condizionato dall'intesa con la Confindustria sul costo del lavoro. Con questa intesa Confindustria e sindacati "assumono come parametri dei propri comportamenti nelle relazioni contrattuali a tutti i livelli, la coerenza degli obiettivi di politica economica e di competitività internazionale".
In questa logica si attiveranno per favorire la riduzione del tasso d'inflazione, con "una dinamica del costo del lavoro coerente con tale obiettivo" ed a perseguire "condizioni di competitività e di produttività dell'intera economia, tali da consentire il rafforzamento del sistema industriale e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti" (?!). Le confederazioni si sono impegnate inoltre a garantire, con la partecipazione attiva alle trattative contrattuali, il raggiungimento di esiti negoziali compatibili con gli obiettivi indicati all'inizio".
La Confindustria per bocca di Patrucco si è subito affrettata - da parte sua - a dichiarare che con le piattaforme presentate "siamo proprio fuori strada rispetto agli indirizzi di fondo dell'intesa, visto che non rispettano le compatibilità generali".
In conclusione: per la prima volta si è trattato per mesi per ottenere la semplice possibilità di avviare i dovuti rinnovi dei contratti. Non solo, ma le Confederazioni si impegnano al raffreddamento del conflitto e a portare avanti questa stagione senza traumi, senza scontro e possibilmente "senza troppi scioperi".
Aspettative e difficoltà della classe operaiaIl proletariato arriva a questa scadenza con un carico contraddittorio. Da un lato assistiamo a un certo risveglio delle lotte sia pure in modo discontinuo: la lotta contro i ticket e contro il governo, la riuscita degli scioperi alla Fiat, l'attenzione operaia alla campagna sui diritti. L'intensificazione dei ritmi e dei carichi, la negazione degli spazi sindacali e politici nei luoghi di lavoro, le aspettative di poter guadagnare finalmente qualcosa da tutto questo sfoggio di profitti, l'entrata in fabbrica di forze giovani sono tutti fattori che spingono alla ripresa della mobilitazione, ricreano nuove attese nelle fila operaie.
Dall'altro lato, però, altri fattori frenano la ripresa e la continuità della mobilitazione e ne rendono più complicato il percorso:
- le direzioni sindacali, pur con tutte le differenze, attestate su una linea di difesa prioritaria degli interessi aziendali, arrivate a esprimere anche formalmente il farsi carico delle esigenze di competitività delle imprese, hanno ormai raggiunto il livello massimo di esautoramento dei lavoratori delle capacità di decidere e contare. Una tale politica non prepara certo la ripresa, anzi complica il percorso di risalita della classe, svendendo progressivamente spazi di autonomia e di organizzazione;
- il "nuovo corso" del PCI, sempre più omologato alle altre forze borghesi, portando fino in fondo l'allontanamento da ogni richiamo anche solo "domenicale" al socialismo, annegando la classe operaia nel calderone dei cittadini, incanalando le lotte su un terreno parlamentarista e interclassista costituisce un ulteriore pesante elemento di confusione e di demoralizzazione per il proletariato. Ma i nodi cominciano a venire al pettine, data la vacuità dei risultati tangibili per i lavoratori (l'accreditamento del "governo ombra" non ha forse messo ulteriormente... in ombra le lotte?);
- il riflesso non certo galvanizzante per la classe del tracollo del presunto socialismo dell'Est. Dal crollo dei regimi tardo-stalinistibrezneviani l'imperialismo occidentale ha tratto un duplice vantaggio, uno economico (boccata d'ossigeno per capitali in cerca di profitti), e un altro politico: 1'89 è stato caratterizzato da una feroce campagna anticomunista antiproletaria il cui obiettivo è la presentazione del "libero e democratico occidente" come il migliore dei mondi possibili e quindi: "operai, affossate ogni illusione di liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, ora e sempre capitalismo!";
- l'allargamento, almeno al Nord, dell'occupazione, il che significa aumento della massa salariale globale benché non del singolo salario. Nelle fabbriche sono stati assunti molti giovani, un'occupazione in parte precaria e ricattata (contratti a tempo determinato e di formazione-lavoro). Anche su questo terreno assistiamo a una forte polarizzazione: da un lato l'area del Nord, in particolare quella che circonda il triangolo industriale, con una disoccupazione sotto il 6%, e dall'altra il Mezzogiorno con una percentuale sopra il 20%.
Ma nonostante le difficoltà cui si trova di fronte il proletariato, non di meno intorno ai contratti si coagulano una serie di aspettative: i temi della riduzione dell'orario, del recupero salariale, della difesa delle condizioni di lavoro, e della "democrazia sindacale" tornano al centro del dibattito e dell'attenzione operaia e cercano delle risposte per poter essere affrontate in maniera vincente. Dare una risposta all'altezza dello scontro necessita innanzitutto della comprensione della posta in gioco. Sono i padroni ad imporre la complessità dello scontro; per la classe può essere l'occasione per rilanciare con forza la battaglia in difesa dei propri interessi complessivi, per non esporsi al rischio di arretramenti futuri.
ORARIO: di fronte a un orario medio che è diventato di 44 ore settimanali, nell'88 ogni operaio ha accumulato 71 ore di straordinario! Di fronte all'uso delle 32 ore di straordinario come allungamento del calendario lavorativo, al proliferare dei terzi turni, del lavoro al sabato e alla domenica, alla flessibilità che determina un netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, alla precarizzazione crescente del rapporto di lavoro, a una disoccupazione che a livello nazionale rimane alta, ad una produttività cresciuta negli ultimi 7 anni a livelli record, assume un carattere decisivo l'obiettivo di una drastica ed effettiva riduzione dell'orario di lavoro, una lotta a fondo contro gli straordinari, per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Del resto la riduzione dell'orario è un obiettivo che anche i metalmeccanici tedeschi e inglesi hanno posto all'ordine del giorno ed è quindi un terreno concreto su cui costruire un'unità con i lavoratori europei.
SALARIO: di fronte ad un salario operaio reale sceso ininterrottamente dal '79 all'85, che ha avuto un primo momento di recupero nell'86, proseguito nell'87-'88 ma senza raggiungere i livelli di dieci anni prima, si presenta come fondamentale per la classe operaia la richiesta di consistenti aumenti salariali, non legati all'andamento aziendale. Il tanto sbandierato aumento dei consumi degli anni '80 si è concentrato nelle classi medie e in parte piccolo borghesi; agli operai sono rimaste limitate briciole quasi sempre al di sotto del tasso di inflazione e pagate ad un caro prezzo in termini di peggioramento delle condizioni di lavoro.
La forte sensibilità sulla questione salariale è evidenziata anche dall'attenzione proletaria intorno alla questione fiscale; va ripresa la lotta anche su questo terreno, contro i tagli alle spese sociali collegandola alla battaglia contrattuale, per la difesa del salario diretto e indiretto.
Lo scontro che si apre con il rinnovo dei contratti necessita del più ampio fronte di classe (perché unitario è il fronte borghese), coordinando la lotta fra le categorie, cercando di coinvolgere anche settori diversi quali i disoccupati, gli immigrati della cui difesa la classe operaia si deve far carico, in quanto elemento di forza per il proletariato nel suo complesso, i salariati del pubblico impiego anch'essi ancora interessati al rinnovo contrattuale.
I1 rinnovo del contratto rappresenta un appuntamento centrale per tutti i lavoratori, e può costituire un momento di ripresa per il movimento operaio e di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. La Confindustria cerca di conquistare il massimo dei vantaggi possibili da questa stagione, avendo dalla sua una congiuntura economica "positiva" e potendo contare su delle direzioni sindacali (con in testa Cisl e Uil) molto disponibili. Per quanto riguarda il proletariato, se vuole conseguire risultati effettivi, è indispensabile la ripresa della mobilitazione, rigettando la politica delle "compatibilità" e "necessità aziendali", e mettendo invece al centro i bisogni e le aspettative operaie. Significa allora battere la logica non conflittuale e conciliante del sindacato e far pesare la lotta come unica arma per costruire e spostare a proprio favore i rapporti di forza che soli permettono di strappare delle conquiste.
Una
conferma dalle prime assemblee
Il "quadro" della situazione operaia, ed in particolare delle attese dei lavoratori, delineato in queste pagine ha trovato piena conferma nell'avvio della consultazione nelle fabbriche metalmeccaniche. Nessuna grande fabbrica, neppure la tanto sbandierata Mirafiori, ha approvato tal quale la piattaforma presentata da Fiom-Fim-Uilm. In decine e decine di fabbriche, invece, da Torino a Napoli, da Milano a Genova, sono state votate piattaforme proposte dagli "auto-convocati"; dagli "auto-organizzati" ovvero, come all'Alfa di Arese, dalla Fiom aziendale, sostanzialmente convergenti su due punti-chiave: un aumento salariale più cospicuo (si è detto: 300.000 lire in due anni) per la massa degli operai comuni e qualificati; una riduzione di orario reale (in diversi casi si è detto: 35 ore), non monetizzabile e senza contropartite in termini di nuovi turni e di flessibilità. Pressocché unanime è stata anche la protesta per la scarsa o nulla "democraticità" del rapporto tra direzioni sindacali e classe operaia. E così perfino una consultazione frettolosa e "non vincolante" è valsa a riprova del fatto che nessuna blindatura degli apparati e delle procedure sindacali è in grado di cancellare quella contraddizione antagonistica tra capitale e lavoro che le vicende degli ultimi anni hanno, viceversa, inasprito. Come la stessa "Unità" è costretta ad ammettere, il "malessere operaio" venuto alla luce è profondo, non occasionale. Sotto accusa è, insieme con il supersfruttamento, una intera politica di svendita degli interessi operai. Da un lato c'è la rabbia operaia per l'enorme peggioramento delle condizioni di lavoro e la sostanziale stasi del salario; e dall'altro c'è la preoccupazione per un futuro che non appare affatto così roseo, per i lavoratori, come in certi depliants ufficiali. Mentre i capitalisti già cercano di servirsi di questa protesta operaia per indebolire ulteriormente i sindacati e, per questa via, per frammentare e deprimere l'intero fronte operaio, le prime reazioni di Fiom-Fim-Uilm sono improntate, pur nella solita diversità di accenti, a considerare irricevibili le aspettative espresse dalle assemblee di fabbrica. Per i bonzi sindacali la contestazione è frutto di "operaismo", "massimalismo" e naturalmente, "spirito anti-unitario" (l'accusa viene dai ricattatori professionali della Cisl e della Uil...); per noi si tratta, invece, di una sana reazione di rigetto della parte più combattiva della classe operaia verso lo smaccato collaborazionismo delle "proprie" direzioni sindacati. Perché questa reazione si traduca in un effettivo passo in avanti della classe, in una reale maggiore capacità e forza di lotta anticapitalista, è indispensabile - però - che l'avanguardia degli operai, superando ogni tentazione aziendalista ed ogni chiusura particolaristica, si proponga di far convergere consapevolmente verso uno schieramento unitario (evidentemente non di soli metalmeccanici) le pressioni "di base" di queste settimane e chiami alla mobilitazione quella "maggioranza" di lavoratori che è tuttora, se non scoraggiata, per lo meno passiva. |