CATASTROFE DEL "SOCIALISMO REALIZZATO"
E PROLETARIATO DELL'EST

 

Indice


La miserevole fine del "sistema socialista " di derivazione staliniana rappresenta unicamente la fine di un castello di menzogne ed oppressione antiproletarie.

Il "nuovo sistema" non segna alcun traguardo pacificatore e "progressista " per il proletariato di questi paesi; al contrario, esso spinge l'antagonismo di classe - e con esso la prospettiva, la necessità del socialismo - oltre ogni limite precedente.


Un "sistema" è definitivamente tramontato ad Est; un "altro" se ne profila l'orizzonte. È menzogna ricorrente che il primo fosse in qualche modo identificabile col socialismo. È perfettamente vero che il secondo vorrebbe essere un modello di capitalismo avanzato, omologo al nostro, pur con tutte le bardature socialdemocratiche di uno "stato sociale" che lo contengano entro determinate "regole" e ne evitino le più esplosive contraddizioni.

Se il "socialismo realizzato" si volge oggi al modello capitalistico occidentale e tutte le sue strutture (statali, politiche, militari, ideologiche...) si convertono a servizio di esso, è unicamente perché (dovrebbe essere evidente anche ai ciechi) in tutti questi decenni, esso non ha "costruito socialismo", ma le premesse capitalistissime di questa corsa all'omologazione ad un più alto e limpido livello di sviluppo dei rapporti produttivi, sociali - e conseguentemente politici - borghesi. Non una "rivoluzione" (alla rovescia), non un "mutamento genetico", ma un salto di qualità all'interno di un'unica linea di marcia.

Se questo è vero, com'è vero, non muta neppure di natura il rapporto antagonista tra le classi, tra proletariato e borghesia. Anche per esso si profila "solo" - ed è tutt'altro che poco! - un salto di qualità. La prospettiva e la necessità, anzi, del socialismo ne usciranno più nette e forti. Lo sono, in potenza, già oggi, nonostante l'orgia "generalizzata" di "rifiuto del socialismo" cui parteciperebbero "insieme" e "solidali", stando alla propaganda borghese, tutte le classi dei paesi dell'Est.

La ristrutturazione passa per l'attacco alla massa del proletariato

Davvero il proletariato dell'Est è omologato od omologabile ai "valori occidentali" come lo possono essere i vari "costruttori" della "perestrojka" (di volta in volta "comunisti" e/o anticomunisti, a seconda delle specifiche situazioni e delle diverse congiunture nei singoli paesi dell'area)?

Prima di rispondere a questa domanda, occorre tenere ben fisso un dato: dovunque ad Est il nodo centrale per decidere i modi, i tempi, i contenuti e le prospettive della "riforma" è costituito da un numeroso e per lo più giovane proletariato con cui, oggettivamente e soggettivamente, devono farsi i conti. Per decidere che la "riforma" era necessaria ed avviarne il corso poteva bastare l'attivismo dei rappresentanti del potere e delle classi sociali ad essa direttamente interessate. Per realizzarla davvero occorre incontrarsi e scontrarsi con gli interessi (e l'espressione ideologica e politica di questi interessi) della classe che produce. Tanto più - non è un mistero per nessuno - che la "ristrutturazione" che si vorrebbe attuare ad Est comporta in primo luogo non solo e non tanto un insieme di aggiustamenti tecnici, ma la ridefinizione del peso e della posizione del proletariato in connessione col dischiudersi di nuovi assetti dei rapporti di proprietà.

In poche parole: il successo della "perestrojka" dipende ovunque dall'allargamento e dall'intensificazione dei processi privati di accumulazione del capitale da un lato e dall'altro dal disciplinamento intensivo di un proletariato "troppo numeroso", "troppo scarsamente produttivo", "troppo tutelato da rendite di posizione".

Più democrazia (o "finalmente democrazia") significa in ultima istanza il "libero" affiorare alla superficie della società di classi borghesi "moderne" in grado di "liberamente" produrre, comprare e vendere merci al "giusto" prezzo di mercato, di accumulare profitti, di assicurarsi sovrastrutture ideologiche e statali a servizio di tanta opera di "progresso"; quindi anche di fare della merce-lavoro un puro e semplice elemento del processo di accumulazione. L'attuale "ipertrofia" del proletariato ad Est e le relative guarentigie che sin qui l'hanno in qualche modo protetto (era il necessario prezzo da pagarsi per stabilire un minimo di "patto sociale" nella fase di accumulazione primitiva del capitale) sono altrettanti ostacoli che la democrazia politica ed economica della "perestrojka" deve saper eliminare o quanto meno ridurre ai minimi termini.

Di cosa si sta parlando in URSS se non di un più deciso passaggio dei poteri aziendali ai legittimi padroni (anche se non necessariamente in termini di titoli di proprietà); di disciplinamento degli operai all'esecutivo (con un pizzico - che non guasta - di "compartecipazione"); di incremento della produttività e cioè, in primo luogo, di innalzamento dei ritmi di lavoro, di mobilità, di scomposizione per livelli di professionalità e, infine, di riduzione delle "eccedenze" e creazione "regolata" di un mercato di manodopera "di riserva"? E non sono questi i temi all'ordine del giorno in tutti gli altri paesi dell'Est? Temi tutt'altro che "teorici". Laddove la "riforma" è andata avanti più speditamente, la "discussione" è già diventata realtà.

In Polonia il potere statale "alternativo", democraticamente conquistato, comprime - com'è giusto! - i consumi proletari per sostenere gli investimenti, il dispotismo aziendale è regola, i capi sindacali del neo-regime (non meno di quelli del regime precedente) consigliano ed impongono moderazione e rinunzie, la legislazione si sta preoccupando di regolare un po' meglio le "riconquistate libertà" operaie e, all'occorrenza, le forze dell'ordine ne assicureranno il rispetto contro l'anarchia.

"Qualsiasi governo farebbe ricorso alla forza contro l'anarchia, e deve farlo." Chi è che parla? Jaruzelski '80? Qualche inveterato stalinista sopravvissuto alla bufera? No. È proprio Walesa, e proprio in nome della democrazia (cfr. "L'Unità", 5 febbraio '90).

Abbiamo detto della Polonia perché rappresenta l'esempio più lampante di un regime "post-comunista" nel pieno esercizio dei suoi poteri e della sostanza di classe di detti poteri, ma tutto l'Est è, sotto questo punto di vista, "polonizzato". La corsa alla "ristrutturazione", in ragione dei ritardi accumulati e della forbice crescente Est-Ovest che lo sviluppo capitalista combinato e diseguale comporta, impone alle locali borghesie di colpire alla radice i "privilegi" operai. Più queste borghesie sono ancor giovani, informi, tanto più appetiti ed aggressività crescono (nella Romania del dopo-Ceaucescu si è dovuto da parte dell'Occidente stesso raccomanda una certa moderazione, fornendo l'appoggio al personale politico "ex"-ceauceschiano, in quanto più esperto e "responsabile" di petto alle avide impazienze dei "nuovi" partiti delle classi accumulatrici) .

...ma il proletariato ne è in qualche modo coinvolto

Naturalmente, le cose dette qui sopra potrebbero indurre, se lette superficialmente e in modo unilaterale, in errori catastrofici. Se ne potrebbe derivare, con parecchio semplicismo, e peggio, che, dissoltisi i regimi stalinisti, l'antagonismo proletariato-borghesia si trasferisca immediatamente allo scontro tra democrazia borghese e dittatura borghese; che la prima non abbia nulla da presentare al proletariato se non la faccia di una più feroce dittatura di classe di cui doversi e potersi sbarazzare subito mirando direttamente al socialismo. Un errore del genere è speculare a quello, contrario, di quanti chiamano i proletari dell'Est a difendersi dai pericoli dell'incursione borghese trincerandosi a difesa delle precedenti supposte "conquiste rivoluzionarie".

Così non è, ed è bene rendersene conto sino in fondo.

È vero che la "nuova democrazia" nei paesi dell'Est significa, nel profondo, una più dispiegata dittatura del capitale, maggior concentrazione di poteri economici e politici antiproletari. Il tasso di sfruttamento e dominio va senz'altro accrescendosi.

Questo è un dato strutturale, storico. Non ne consegue, però, un'immediata collocazione del proletariato sul proprio versante storico ("dittatura del proletariato"); al contrario - misteri della dialettica per chi non sa maneggiarla! - il proletariato è in qualche modo compartecipe di questo cambiamento, ne è coinvolto anche e proprio per poter affermare sé stesso nel lungo e complesso cammino verso la propria emancipazione.

I regimi stalinisti avevano stabilito un "mercato unico" (assai fragile alla distanza, e lo si è visto) delle idee e dell'organizzazione politiche nonché degli interessi economici sotto il "rigido" (tanto rigido che s'è spezzato d'un colpo!) "monopolio" Stato-partito. In questo quadro, i proletari, tenuti a catena dal "bastone" e dalla "carota", dal classico knut e da una larva di "patto sociale", non potevano esprimersi in alcun modo in quanto classe indipendente. Certo: nulla, da un punto di vista "teorico" astratto, metastorico, impedisce che il proletariato passi direttamente dalla lotta contro questo livello di oppressione all'affermazione dei suoi fini ultimi rivoluzionari. Ciò dipende, concretamente, storicamente, dal grado di forza e coscienza di cui un dato proletariato è in possesso.

Orbene, il proletariato dell'URSS (per altri paesi dell'ex-"sistema" le cose sono ancor più complicate) è oggi quello risultante dal tentativo rivoluzionario vittorioso del '17 e dalle successive esperienze del rientro di quel tentativo attraverso lo stalinismo col suo doppio isolamento all'interno ("costruzione del socialismo in un solo paese") e dall'esterno (sconfitta del movimento di classe in Europa negli anni venti col conseguente revival di capitalismo e socialdemocrazia); è quello risultante dall'assunzione "nelle proprie mani" di compiti - nella realtà - di costruzione del capitalismo (delle "basi del capitalismo", dicono alcuni supporters "di sinistra" di Gorbacev) dinanzi alle dimissioni, parte volontarie parte forzate, della borghesia nazionale.

Esso rappresenta perciò, in qualche modo, un ibrido tra compiti borghesi e compiti di difesa dei propri interessi di classe (in quanto "classe del capitale"). È per questo "semplice" motivo che anch'esso, a modo suo, per sé, si è trovato a "combinare" la necessità di "riformare" capitalisticamente la società e di portare in questa "riforma" la propria voce.

Anche per esso è non solo "migliore", ma obbligato, dati i presupposti, il "mercato pluralista" delle ideologie, delle organizzazioni politiche, della contrattazione economica della stessa propria merce-lavoro (precedentemente non sottratta al mercato, ma vincolata ai prezzi di monopolio statali). L'"unica" differenza rispetto alle altre classi è che esso entra in questo mercato appunto per sé, ed a partire da ciò (non saltando - come sarebbe stato astrattamente "preferibile" - sopra a ciò) che potrà aprirsi ed approfondirsi l'antagonismo di classe che risiede nella struttura stessa del sistema capitalista, tanto più in quanto "democratico". Di qui si riparte, e mai diremo che è poco o... peggio.

Engels scrive nel suo "Catechismo" che la necessità storica stessa implica che "siccome i comunisti non possono contare sulla lotta decisiva fra loro stessi e la borghesia prima che quest'ultima abbia il potere, è dunque interesse dei comunisti di aiutare a portare al potere i borghesi il più presto possibile, per riabbatterli il più presto possibile." Naturalmente, questa "raccomandazione" non si attaglia alla situazione dell'Est: lì esisteva di già un potere borghese (anche "senza borghesia" visibile), ma il passaggio mantiene una sua suggestione. Con Stalin, nel falso nome della "costruzione del socialismo", si è compiuto il ciclo grandioso dell'accumulazione capitalistica primitiva, in cui, sotto le vesti della "proprietà di tutto il popolo" e dello "stato proletario", dominava una coalizione di interessi borghesi "nazionali" ed internazionali e s'incubavano, nel seno stesso di una società "senza classi", le fisiche figure di una borghesia in carne ed ossa, qual è quella che, oggi, viene scopertamente alla luce. La rivoluzione internazionale che avrebbe potuto bruciare le tappe economico-sociali, imprimendo - nell'ambito di un terreno economico

sovrannazionale e con l'apporto primo della sviluppata Germania - all'economia russa un'accelerazione e un salto in direzione del socialismo, questa rivoluzione non è venuta. I proletari sovietici devono pagare alla storia questo "supplemento" di tempo e di esperienze.

Da questo punto di vista, essi di fatto "aiutano" i borghesi a fare la loro parte sino in fondo, al livello successivo del corso (sempre capitalista) dell'accumulazione. Inutile cercare scorciatoie, anche se nulla sta scritto in teoria contro la possibilità di uno sbaraccamento diretto della borghesia già al presente livello ed anche se saremmo i primi a godere (e siamo i primi ad indicare), la prospettiva di un nuovo assalto ai Palazzi d'Inverno senza remora alcuna per la fragilità delle basi da cui ripartire per l'obiettivo della trasformazione socialista della società. Tant'è. L'importante è capire come di qui si dipani però quella soluzione prospettica nel concreto di uno scontro già (e non da oggi) in atto.

Le attese operaie nei confronti della "democrazia"

Da dove ricominciare. Meglio: da dove si ricomincia?

Vediamo intanto che, nei reparti più avanzati della classe, non c'è alcuna nostalgia per le supposte "conquiste rivoluzionarie" del passato, che, tradotte in termini semplici, hanno significato per essi esautorazione del potere politico, sfruttamento economico e compressione sociale rispetto agli interessi del capitale e, al tempo stesso, stagnazione economica una volta esauritesi le riserve dell'allargamento "estensivo" della produzione (di cui essi sono stati gli artefici non beneficiati). Alla ristrutturazione capitalistica attuale si guarda e si risponde non con gli occhi volti all'indietro, e poco importa che ci sia qui, nel cuore dell'affluenza capitalistica, chi raccomanda agli operai sovietici di "rimanere austeri" (berlinguerianamente, ingraianamente, "trotzkisticamente") pur di evitare i "rischi dell'omologazione". Un proletariato tuttora incapace di prendere in mano tutto il potere (e, ricordiamoci, a scala non locale, nazionale) "preferisce" alla "difesa della proprietà statale" (che socialismo non è, ma solo può esserne una via quando il potere politico sia nelle mani del proletariato) ed all'"assenza della borghesia" (intesa come visibile "personale", non in quanto assenza dei meccanismi di produzione e distribuzione capitalistici) la realtà di un sistema apertamente borghese "che funzioni" e riempia di merci gli scaffali dei negozi (merci e non "valori d'uso" erano anche prima, con la differenza che apparivano al contagocce). E "preferisce" un sistema in cui gli sia apertamente riconosciuto il "pluralismo" delle classi e degli interessi e, in ragione della "democrazia", il "diritto" di entrare nell'agone a sostegno dei propri bisogni ed interessi, con proprie organizzazioni.

Nessuna "valorizzazione" della democrazia borghese da parte nostra, sia ben chiaro. E nessuna "omologazione" del proletariato sovietico in questa democrazia. Essa è unicamente il terreno "più limpido" ed avanzato su cui l'antagonismo si definisce, matura, verrà a tradursi in scontro definitivo per il potere.

Abbiamo già tracciato in precedenza (cfr. "Che Fare" n° 6) i percorsi possibili di questo ridefinirsi del proletariato in quanto classe "per sé" in URSS, secondo uno schema che può essere riferito anche agli altri paesi del "blocco" (sempre tenute in conto ulteriori complicazioni).

Ci ritorniamo brevemente sopra alla luce delle esperienze che si sono poi succedute.

Proprio perché al centro della "ristrutturazione" in atto l'obiettivo da colpire è il proletariato (questo "pachiderma" da ridurre di peso, scomporre, disciplinare) e proprio perché, contemporaneamente, quest'obiettivo non potrebbe conseguirsi attraverso uno scontro frontale, data anche l'esiguità a tutt'oggi delle truppe d'assalto della borghesia e dei ceti medi da lanciare all'assalto, i "riformatori" al potere mirano a "coinvolgere" nel disegno il proletariato stesso, facendo balenare a strati di esso la prospettiva di una promozione economica e sociale e chiamandoli a partecipare attivamente alla gestione dei processi ristrutturativi. Gorbacev, ammantandosi del "ritorno a Lenin", ha fatto addirittura ribalenare l'insegna "Tutto il potere ai soviet". Il senso di questa strategia è chiaro, perlomeno per chi ci segue e condivide le nostre tesi.

"Autogestione" e rivendicazioni immediate

L'importante è notare che i proletari, così chiamati ad esercitare i propri diritti e il proprio "potere", prendono troppo spesso sul serio le promesse che gli si fanno. Il risultato primo è una sorta di rivendicazione "autogestionaria" che non mette assolutamente in causa il sistema di produzione - fin troppo ovvio! -, ma attizza un contrasto di classe effettivo, ed in crescendo. Si parte dalla lotta contro i "burocrati" delle direzioni tecnico-amministrative e politiche, colpevoli di "inefficienza" (e fin qui tutto bene...), ma anche di... troppa efficienza nel guardare alla produzione "dimenticando" i bisogni e i "diritti" operai. Le due cose entrano spesso in contraddizione fra loro. L'aiuto offerto dalla massa lavoratrice al regime sotto forma di sbaraccamento delle vecchie burocrazie inefficienti (diciamo pure "parassitarie") è ripagato dall'immediata ostilità alla nuova "efficienza" che vorrebbe sostituirvisi da parte dei tecnocrati, dei capi, dei "brasseur d'affaires" e della miriade di strati interessati alla "ristrutturazione del proletariato".

Il pericolo di un pieno "coinvolgimento" del proletariato nel processo capitalistico di ristrutturazione sub specie "autogestionaria" è, date le condizioni in cui essa è chiamata a svolgersi, molto transitorio e relativo (non è pensabile una replica "più in grande" di un autogestionarismo alla jugoslava anni '50, in quanto questo era funzionale ad una fase tramontata di "accumulazione originaria" e non è riproducibile alla scala dei processi che s'impongono nell'attuale fase di sviluppo). L'ideologia autogestionaria, quindi, non corre più di tanto il rischio di "accompagnare" una fase dell'accumulazione capitalista, ma costituisce piuttosto il prius (e il predisponente) di una più netta coscienza della separazione tra opposte istanze di classe e della sua assunzione, ideologica e politica, ai fini dello scontro che s'impone. Con tutte le contraddizioni del caso, questo indicano le lotte dei minatori, le cui bandiere autogestionarie si sono dovute spingere, non a caso, oltre le mura della "propria" azienda sino a coinvolgere l'intiero settore e realtà territoriali di potere (e lasciamo pur stare le confusioni e le incertezze ideologiche quanto a questa questione del potere).

Secondo punto relativo alle rivendicazioni immediate: il proletariato non intende pagare la ristrutturazione con la riduzione e la messa in stato di precarietà, di non-garantismo, della forza-lavoro. Esso difende rabbiosamente e con compattezza la merce-lavoro che è costretto a vendere. Sulla difensiva? Sia pure, ma poiché ad essa deve rispondere una progressiva offensiva del capitale, questa stessa difensiva, per non rimanere schiacciata, dovrà compiere dei salti. Il gioco è estremamente aperto e non è un caso che i "perestrojkisti" stiano graduando e persino ritardando l'introduzione di misure che pur, sulla carta, da un punto di vista "puramente economico", sarebbero estremamente necessarie ed impellenti.

Ricordiamo che siamo tuttora all'ouverture appena di questi processi. Le esitazioni dell'avversario la dicono lunga sui rischi (per esso) e le promesse (per noi) a ciò inerenti. La relativa arretratezza politica del proletariato dipende anche dal carattere appena d'"assaggio" dello scontro che si prepara. Quando esso si darà, è legittimo attendersi che esso butterà sul piatto la propria forza numerica, la propria tradizione unitaria, il proprio carattere di forza giovane, non tradizionalista (quindi: senza tradizioni rivoluzionarie, di partito, ma anche senza tradizioni - e non a caso! - di corruzione borghese; le prime potranno ridarsi "per salti", le seconde non potranno, nel ciclo attuale del capitalismo decadente attuale, esservi instillate, ma, al massimo, potranno lambire strati di "aristocrazia operaia" incapace di farsi tramite tra la borghesia e la massa operaia).

Verso l'organizzazione sindacale e politica della classe

Sul piano più propriamente politico (od anche semplicemente prepolitico).

S'è visto che, ovunque, gli operai tendono a darsi innanzitutto dei propri organismi sindacali indipendenti. Nella fase senile dell'imperialismo, l'indipendenza sindacale richiama necessariamente il dato politico: "L'indipendenza dei sindacati in un senso di classe, cioè nel loro rapporto con lo stato borghese, nelle attuali condizioni può essere garantita solo da una direzione completamente rivoluzionaria. (...) I sindacati, nella nostra epoca, possono o servire da strumento secondario del capitalismo imperialistico oppure diventare strumenti del movimento rivoluzionario del proletariato" (Trotzkij, 1940).

Non stateci a spiegare di quanto siamo lontani dallo sciogliersi di questa alternativa. Lo sappiamo fin troppo bene. La teoria, però, disegna, anche alle grandi distanze, la tendenza necessaria di un processo. E l'attualità di questa tendenza è già oggi sotto i nostri occhi.

I proletari che all'Est lottano per propri sindacati indipendenti non lo fanno, non lo possono fare, nel senso di mettere in piedi uno "strumento secondario del capitalismo imperialistico". Siamo fuori tempo e fuori spazio perché un'operazione del genere riesca plausibile.

L'esperienza polacca di "Solidarnosc" è emblematica al riguardo. Il risultato autentico e permanente che in esso si è concretizzato consiste nella capacità del proletariato di contrapporsi come un'unica massa organizzata al potere "legale" e di imporre ad esso il riconoscimento del "diritto" del proletariato ad esistere come "controparte" con cui fare i conti, quindi una contro-legalità. Che l'opposizione al regime "comunista" non potesse immediatamente tradursi in un'opposizione al capitalismo in quanto tale era scontato. Altrettanto scontato era che, mancando i presupposti di un tale sbocco, ideologie e personale politico borghesi s'installassero ai vertici di "Solidarnosc" tra gli applausi entusiastici della base. Con tutto ciò, il senso profondo che la massa operaia aveva inteso dare alla creazione del proprio sindacato (e semi-partito insieme) è rimasto fondamentalmente integro. Nel momento in cui la direzione borghese di "Solidarnosc", ormai titolare del potere, cerca di mettere d'accordo ideologia e interessi si trova anche, necessariamente, a far cozzare questi ultimi contro quelli della massa operaia ed è in forza di ciò che la massa è costretta a replicare (e a rimettere d'accordo per altra via interessi ed ideologia propri, partendo come sempre "dal sedere" in direzione della "testa" e non viceversa).

Le forme di rappresentanza sindacali (e/o semi-sindacali, ibride) per tutto un arco di necessarie esperienze "intermedie" (più che di tempi) saranno condizionate da una direzione borghese, sia per la legge del "minimo sforzo" immediatista sia per quella del massimo sforzo cosciente da parte delle forze sociali e politiche borghesi. Al tempo stesso, dentro questo arco di esperienze si consumano (possono consumarsi) le riserve dell'egemonia borghese e si fa strada (può farsi strada) una piena, inequivocabile indipendenza di classe in quanto "movimento rivoluzionario".

La dislocazione delle forme può sì essere definita quale "estremo bastione" borghese (si pensi alla menzogna gorbacioviana e el'tziniana del "tutto il potere ai soviet"), ma esso è estremo appunto in quanto segna progressivamente l'avvicinamento al punto in cui forma e contenuto vengono (possono venire) a collusione (salvo una reinversione della linea di movimento) e la "quantità" della pressione proletaria si converte in "qualità".

Il proletariato dell'Est ha già realizzato che le bandiere del "comunismo" coprivano una realtà di oppressione di classe. Per tutta una serie di condizioni, interne ed internazionali di lunga data, esso ha dato una prima replica a quest'oppressione nel nome dei valori borghesi della democrazia. Non è poco, però, che esso l'abbia intesa da subito come specifica "democrazia operaia". Non è poco perché la "democrazia" tout court dev'essere ed è contro l'istanza profonda che presiede a quest'altra "democrazia" (se così non fosse, l'antagonismo di classe - che è prima un fatto oggettivo e poi di coscienza - potrebbe essere contenuto ad aeternum entro le regole del sistema presente).

È o non è significativo che "minoranze" di "Solidarnosc" parlino apertamente di "nuova dittatura antioperaia" nei confronti delle "proprie" direzioni attuali (e Walesa evochi il rischio di venir linciato dai suoi stessi ex sostenitori)?, che i minatori sovietici ipotechino il loro appoggio condizionato alla "perestrojka" con una crescente affermazione del proprio "contropotere" indipendente?, che persino gli operai rumeni, ad onta del ricordo non certo piacevole di Ceaucescu, si ritrovino a manifestare contro i "partiti borghesi" che pretendono di averli "liberati" per meglio sfruttarli?, che gli operai jugoslavi comincino a spezzare il cordone sanitario delle contrapposizioni "nazionali" (cui pure non mancano materiali punti d'appoggio)?

Il corso successivo dipenderà dallo svolgersi della "perestrojka" ad Est in relazione a quello del capitalismo occidentale, cui essa è strettamente intrecciata. Le leggi di questo sviluppo (come mostriamo in un altro articolo di questo stesso numero) parlano inequivocabilmente a favore del nostro "schema" di previsione e d'intervento.

***

Siamo al punto più delicato.

Il proletariato dell'Est non mostra ancora di essersi messo sulla strada della costituzione di un proprio partito politico, neppure "in nuce". Questo è il nodo essenziale.

Si tratta, senz'altro, di un ritardo. Ne prendiamo atto, ma non cene spaventiamo più di tanto. Le condizioni materiali perché si pongano le premesse di un tale esito non sono attualmente mature. Non lo sono per tutto il peso del ciclo controrivoluzionario precedente (che qui ha assunto la maschera insidiosa della "costruzione del socialismo"), per le risorse tuttora disponibili all'imperialismo occidentale, per la conseguente sordità del proletariato occidentale ad ogni richiamo alla lotta rivoluzionaria ed all'internazionalismo, per il carattere tuttora primordiale ed incerto della stessa "perestrojka", che in qualche modo si autofrena per il (giusto) timore di sconvolgimenti sociali e politici incontrollabili.

Questi quattro fattori si tengono assieme. In che direzione essi andranno ad evolvere? La nostra motivata risposta è ben nota.

Non deve perciò stupire che il "massimo" cui attinge attualmente lo sforzo politico del proletariato dell'Est sia quello dell'autogestionarismo, del "luxemburghismo", dell'anarco-sindacalismo etc., spesso sotto l'influenza di strati dell'intellighentzija piccolo-borghese "proletarizzata". Sarebbe un micidiale errore di prospettiva vedere in ciò solo la "riedizione", l'ombra del passato. Noi vi vediamo piuttosto l'inizio della difficoltosa marcia di riavvicinamento al marxismo. E si capisca bene il senso in cui l'intendiamo.

Quando anche un infimo raggruppamento di marxisti conseguenti riapparirà ad Est, esso troverà nella condizione oggettiva e soggettiva del proletariato materiale sufficiente su cui fondarsi ed in quella del capitalismo, interno ed internazionale, sufficiente combustibile per alimentare la propria "scintilla".