Che sta succedendo nei "paesi socialisti"?
TRA
PERESTROJKA ED ANTI- PERESTROJKA SI CONSUMA IL MITO DI UN FALSO "SOCIALISMO"Negli anni d'oro dello stalinismo il "mondo socialista" faceva da illusorio faro per milioni di proletari dell'Occidente. Oggi quel mito sta fragorosamente crollando. Borghesi e "riformisti forti" vorrebbero far crollare con esso la prospettiva storica dell'autentico socialismo. Non sarà così. La crisi dell'Est è crisi del capitalismo, ad Est e ad Ovest, e più che mai richiama al proletariato internazionale l'urgenza di ritornare sulle proprie barricate di classe.
Se in questo numero, per le ragioni esposte in apertura, non possiamo intrattenerci analiticamente nel dettaglio sulle ultime evoluzioni della crisi che attanaglia tutti i paesi dell'Est, non possiamo fare a meno di sottolineare alcuni temi di fondo su cui ritorneremo successivamente.
Ancora una volta è l'URSS al centro dell'attenzione, all'indomani delle "libere elezioni" che hanno mandato contemporaneamente in sollucchero le centrali dell'imperialismo USA e i redattori del "Manifesto", ovviamente con motivazioni opposte, ma secondo uno stesso criterio-guida. Apertura alla democrazia = riconoscimento di valori propriamente occidentali, e quindi ripudio sostanziale del socialismo, afferma Bush; no, replica "Il Manifesto": = sviluppo e rigenerazione del socialismo. Per entrambi, la Democrazia quale valore supremo.
Tra i due (qui ci limitiamo a prendere in considerazione due estremi, senza passare in rassegna altri innumeri esempi interpretativi) chi bara di meno è certamente Bush. Ha un bel contorcersi la Rossanda ad immaginarsi una rinata "democrazia sovietica" (cioè dei soviet, dei consigli operai?!) Quella che sta affermandosi in URSS, come altrove all'Est, non ha nulla a che fare con un ritrovato potere proletario nella lotta per l'organizzazione socialista della società (tantomeno al necessario livello internazionale); prescinde e si oppone, in partenza ed in arrivo, ad ogni prospettiva rivoluzionaria. Essa è, all'opposto, la conseguenza di un'accelerata maturazione di processi economici, sociali e politici prettamente borghesi, e la premessa di una "miglior gestione" di quei processi. Non a caso le "riforme democratiche" partono dall'alto, dai vertici della burocrazia politica e dei poteri tecnocratici (ed, anche se accuratamente mascherati, proprietari), col sostegno e l'opera promozionale delle "classi emergenti" estranee e spesso francamente ostili al proletariato e quest'ultimo praticamente assente dal gioco.
Dopo decenni di contenimento delle diverse tendenze esercenti il potere economico e sociale effettivo entro la cornice del "partito unico", si è dapprima riconosciuto il pluralismo degli interessi, poi la legittimità (la funzionalità) di una sua libera espressione. Fuori dell'URSS, questo pluralismo ha già cominciato a tradursi anche sul piano formale, in vero e proprio pluripartitismo (Ungheria, Polonia, Jugoslavia). In URSS si vuole ancora salvare l'apparenza monopartitica, ma questa, per l'appunto, è solo un'apparenza. Basti pensare alla competizione elettorale del marzo, cui si è arrivati dopo uno scontro preliminare di partiti all'interno del PCUS per arrivare alle candidature ufficiali ed anche, neppur tanto velatamente, al di fuori di esso.
Chi saranno i nuovi deputati? Tutti "comunisti", si dice. Già, ma alquanto diversi fra loro. Hanno potuto farsi propaganda e farsi eleggere burocrati tradizionali e "rinnovatori" emergenti; pope e "dissidenti" (Pimen e Sacharov, che esemplare coppia di "comunisti"!); sciovinisti grande-russi ed ultranazionalisti o regionalsti di ogni pasta (come i neodeputati del Baltico, e non solo, che promettono di andare a Mosca per difendere gli interessi del proprio paese... contro Mosca)... E questo sarebbe il "monopartitismo"? Non più e non meno che in Italia, a quant'è dato vedere.
Partiti diversi e competitivi tra di loro, dicevamo, anche se "riuniti" sotto una stessa (e sempre più evanescente) sigla unica; ma anche effettivamente uniti quanto ad un punto essenziale: tutte queste forze sono programmaticamente contro ogni prospettiva effettivamente proletaria e socialista. Accanto ad una fetta, che sembra in via di restringimento, di "nostalgici" del vecchio sistema gestionale "amministrativo" (o vetero-stalinista che dir si voglia), la massa dei nuovi "rappresentanti del popolo" non ha dubbi su una sempre più decisa apertura al mercato, alle leggi del profitto, all'esaltazione dei "ceti emergenti" ed al disciplinamento del proletariato, troppo "estensivo" e da "intensivizzare" al più presto.
Non occorre ripetere che guardiamo con simpatia al seppellimento del conservatorismo burocratico, ma solo in quanto la via gorbacioviana finalmente toglie di mezzo anche gli ultimi ostacoli al pieno sviluppo dei già esistenti e dominanti rapporti di produzione borghesi e, con ciò, al pieno sviluppo di una moderna lotta di classe.
Sta di fatto che nessuno dei competitori ha parlato la lingua della nostra classe, anche se c'è chi, all'"estrema sinistra", si è preso una cotta per il volpone populista El'tzin, gabellato come campione della più spinta "rigenerazione socialista" del paese. No. Nessuno si è assunto la bandiera, del proletariato e del socialismo, né in URSS né in Ungheria né in Jugoslavia o Polonia, né altrove.
Neppure gli operai, questo è vero.
Talora vivace, ed anche estremamente vivace, sul terreno delle proprie rivendicazioni immediate, sul piano politico il proletariato non è arrivato a formalizzare un suo programma ed una sua organizzazione. In Polonia (il paese dell'Est dove la lotta operaia ha toccato sin qui i più alti vertici) esso si è provvisoriamente accodato - anche se non senza scosse premonitrici - dietro le direzioni borghesi di "Solidarnosc". In URSS si è accontentato, al presente, di meno e non di più, delegando il potere alla "rappresentanza" dei "più onesti", dei "più vicini" dei contendenti.
È altrettanto certo, però, che quando la protesta sociale sarà salita, trasformando la quantità in qualità politica, il proletariato dell'Est dovrà costituirsi in partito indipendente contro tutta l'impalcatura del potere economico e sociale su cui si reggono tanto i Walesa che gli Jaruzelski, l'Associazione Pamjat' o El'tzin, e non troverà lo spazio "democratico" concesso dal potere a "tutte" le attuali parti in causa, divise e in contrapposizione tra loro, ma unanimemente riconoscentisi nel sistema.
Sicuramente l'apertura di una "dialettica politica" è anche da noi salutata con favore, con riferimento alle prospettive di sviluppo della nostra parte. Ma non, alla moda dei "trotzkisti", perché ci immaginiamo che di per sé la "libertà di opinione e di scelta" dischiuda orizzonti liberatori per il proletariato. La "dialettica politica" è importante per noi in quanto sta a testimoniare di quanto si è aperta quella sociale, tra le classi. In questo quadro i proletari sono interessati a conquistarsi le "libertà borghesi". Solo che, per conquistarsele per sé, dovranno farlo contro i borghesi, di ogni tendenza, strappando la sanzione dei propri "diritti" sul campo dei rapporti di forza effettivi.
Il momento è lontano? Noi sappiamo che è ineludibile.
Tutti i paesi dell'Est (a cominciare dalla, spesso ignorata, precorritrice della perestrojka: la sterminata Cina!) sono oggi attanagliati da una crisi di duplice portata: quella inerente al "proprio" capitalismo, ritardato od inceppato, e quella del sistema capitalista internazionale da cui sognerebbero la salvezza e dalla quale, al di là di possibili (e localizzati) momenti di respiro all'interno, verrà solo l'unificazione della crisi stessa e, con essa, quella dello scontro internazionale tra borghesia e proletariato.
La nuova "apertura" dell'Est ad Occidente non segnerà alcun definitivo trionfo dei "valori dell'Occidente" (secondo le speranze dei capofila imperialisti) né alcun "nuovo modello" di "interdipendenza" armonica tra i "vari sistemi" (secondo quel che ci ammanniscono gli Occhetto). La fine del "mito del socialismo reale" è l'anticamera del crollo non dell'esigenza socialista - di Marx, di Lenin, di noi presunti "sopravvissuti" -, ma del pestifero mito del capitalismo, per quanto tutti, o quasi, si affannino a lavorare in senso inverso.
Le pezze dimostrative non mancano davvero.
In Polonia, governo ed "opposizione" fanno a gara nel combinare le "riforme" (sotto controllo del FMI e delle multinazionali d'Occidente) come sempre più pesanti sacrifici per gli operai. L'Occidente guadagna nuovi spazi, ma - ahilui! - vieppiù incontrollabili socialmente e il boomerang si ritrose contro chi l'ha lanciato. E che dire della Jugoslavia? Come non mai è qui evidente l'immagine di un paese che affonda; solo che, con esso, rischia di affondare "un pezzo" di quell'Occidente che si è collocato da padrone sulla barca. Nona caso, "Rinascita" si interroga angosciata: se salta la polveriera jugoslava che ne potrà essere di noi - noi Occidente - e della stessa perestrojka? E vanno diversamente le cose in Cina? O andranno inversamente in URSS, una volta estesasi a questo paese la rete della "nuova interdipendenza mondiale"?
Hic Rhodus, hic salta!
La lotta operaia nei paesi dell'Est sin d'ora si rivolge oggettivamente contro l'insieme dei rapporti economico-sociali dominanti mondiali. Manca ancora ad essa la coscienza sogettiva di questo fatto; mancano un programma ed un'organizzazione a ciò adeguati e mancano, aggiungiamo noi, soprattutto perché ad Occidente non si è ancora smaltita la sbornia da capitalismo superimperialista e relative briciole, il che ha sin qui impedito che alla classe operaia polacca - ad esempio - arrivasse non la "solidarietà" della Thatcher o dei Benvenuto, ma quella dei propri fratelli di classe di qui. Tuttavia, per quanto ritardata e complicata possa essere la formazione di una soggettività di classe, questa - una volta posta dalle cose - è cosa certa, contro cui neppur la più sofisticata impresa "controtendenziale" della borghesia può far nulla.
Un esempio lampante ci viene, ancora una volta, dallaJugoslavia. Qui, l'affondamento di un'economia interna contemporaneamente "ossigenata" e soffocata dal capitale occidentale ha dato luogo a prime, consistentissime reazioni proletarie, che, come abbiamo testimoniato nel numero precedente del giornale, hanno trovato primi momenti di unificazione e di decantazione politica. A scongiurare queste manifestazioni od a piegarle ai propri interessi, le varie frazioni borghesi jugoslave hanno inalberato gli stendardi del nazionalismo, conseguendo consistenti risultati immediati (1'"unità al di sopra delle classi" - in Serbia, con la partecipazione dello stesso proletariato - attorno alla causa "nazionale" della "propria repubblica"). Ma, ciò facendo, non hanno potuto risolvere nessuno dei problemi di fondo che affliggono la classe operaia, così che la sbornia nazionalista - quando c'è stata - di quest'ultima rischia di passare al più presto, mentre restano ed ingigantiscono i conflitti inter-borghesi all'interno della Federativa. Contemporaneamente, la borghesia d'Occidente, che aveva potuto "tollerare"... a fin di bene i diversivi di un Milosevic guarda ora preoccupata agli sviluppi di una situazione che minaccia di diventare incontrollabile.
Per conservarsi la sua Jugoslavia, il capitale d'Occidente deve "reinvestire" in "aiuti", al tempo stesso, i nuovi "aiuti" non possono certamente farsi a titolo gratuito: sono un investimento che deve rendere. Il cappio del FMI torna a stringersi più forte attorno alla gola del proletariato jugoslavo, ma, con ciò, il cerchio si fa sempre più stretto.
Verrà il momento in cui il lavoratore sloveno dovrà comprendere sino in fondo il carattere reazionario dell'invito rivoltogli a farsi "azionista" della causa nazionale slovena separandosi e contrapponendosi ai propri fratelli jugoslavi; e verrà, forse prima di quel che comunemente si possa pensare, quello in cui il lavoratore serbo vedrà che a minacciarlo non sono i "concorrenti" operai croati e sloveni o quelli "irredentisti controrivoluzionari" del Kosovo. Il nemico è in casa nostra: vecchia, intramontabile consegna!
Dilatate questo esempio allo sterminato territorio dell'URSS e potrete intravvedere lo scenario dei conflitti che si preparano anche lì (e lì più ricucitili o rinviabili). Le sollevazioni "nazionali" (ultimissima quella sanguinosa in Georgia) testimoniano la presenza di un'economia e di una società in marcia spedita verso un pieno capitalismo interno "integrato" a quello imperialista d'Occidente e già caratterizzato da un massimo di squilibri e spinte concorrenziali (che, grazie alla glasnost', hanno trovato posto a livello di rappresentanza parlamentare). Gli investimenti a cascata che premono da Ovest porteranno queste contraddizioni (proprie dello "sviluppo combinato e diseguale") al parossismo. Con quali prevedibili risultati?
Lasciamo al lettore di trarre le conclusioni. Chi ha seguito la nostra stampa e quella della corrente storica cui ci rifacciamo quel tanto che basta avrà in mano sufficienti chiavi di interpretazione. Per noi (e per chi prima di noi) la fine, questa fine, del "mito socialista" in versione stalinista e post-stalinista resta una "morte annunciata", puntualmente confermata dagli "inediti" svolgimenti concreti dell'attualità.
Gli entusiasti - più o meno critici - di questa perestrojka, come di tutte le precedenti, possono bene farsi e spargere illusioni controrivoluzionarie a piene mani. Essi saranno fortemente sorpresi dagli avvenimenti. Entusiasti, di volta in volta, di Stalin, di Tito, di Mao, persino di Ceaucescu (promosso un dì a quasi eurocomunista), di Walesa, di Gorbacev e di chissà altri domani, costoro non vedono od hanno in sacro orrore un soggetto soltanto: il proletariato, e con esso la rivoluzione ed il socialismo. Buon pro gli faccia!
Perestrojka e glasnost' rispondono con le leggi marziali ai problemi da esse stesse suscitati Dunque la ritrovata "democrazia" dell'Est (salutata a viva voce da tutto il "libero" Occidente) risponde con le armi ai sollevamenti di massa da essa stessa provocati. Non è una sorpresa per noi: la "democrazia" del capitale resta, come e più che ai tempi di Lenin, l'espressione del totalitarismo borghese prosperante sulla base di una società che si muove anarchicamente e in termini di classe necessariamente antagonisti. È la libertà di una ristrettissima minoranza di sfruttatori sopra la stragrande maggioranza della popolazione. Una siffatta "democrazia" ha le sue basi in un potere economico-sociale assolutamente fuori controllo, sul quale si elevano le sovrastrutture ideologiche e giuridiche e che magistratura ed esercito sono chiamati a sostenere. In Jugoslavia (il primo paese dell'Est ad aver aperto incondizionatamente al mercato ed alla "democrazia") si assiste così al dramma di un intero popolo, quello di nazionalità albanese del Kosovo, contemporaneamente gettato all'ultimo scalino dello "sviluppo "(oltre il 50% di disoccupazione!), "redditi "di di fame in senso proprio e non figurato! -) e privato di ogni diritto all'autodeterminazione nazionale (le due cose vanno bene assieme!). Ecco allora, da Belgrado, un Milosevic chiamare a raccolta la "patria serba" per disciplinare i rivoltosi del Kosovo ed, insieme, lanciare un avvertimento ad altre repubbliche sovrane che lo sviluppo "diseguale e combinato" del sistema capitalistico jugoslavo ha posto, invece, ai vertici (relativamente alla Jugoslavia) dello sviluppo (slovenia, Croazia). Ma chi è questo Milosevic? Un neo-stalinista? Un nemico (rétro) della liberalizzazione mercantile? Tutt'altro. È un sostenitore delle "riforme" economiche che spingono ulteriormente la Jugoslavia sulla via di uno sviluppo squilibrato, anarchico, che di buon grado accetta di farsi dettare le leggi dal FMI (più forte di tutte le milizie serbe messe assieme). La situazione del Kosovo, coi suoi orrori, è figlia di questo "aperturismo", pienamente "democratico" e perciò pienamente dittatoriale, i cui fili sono tirati da Occidente. In URSS, parimenti, il superamento del "sistema amministrativo centralizzato di gestione" dell'economia e della società (della politica, di conseguenza) ha fatto venire alla luce ed ha acutizzato diseguaglianze e conflitti, a tinte, sin qui, nazionalistiche, ma le cui basi egualmente risiedono nelle leggi del sistema (e tanto più quanto questo, per recuperare i precedenti ritardi, è costretto a bruciare le tappe, inibendosi l'impiego di opportuni ammortizzatori). Ogni passo in avanti della perestrojka, con relativa "democrazia", non farà che aprire nuove ed insanabili piaghe. Le truppe ritirate dall'Afghanistan sono inviate a "controllare" Armenia, Arzebajgian, Georgia... Lo stato d'assedio può mettere sì la sordina ad una rivolta che è sociale, ma non può risolvere alcuno dei problemi che in quella rivoltasi esprimono. "Libere elezioni" e... libertà d'esercito. Due facce della stessa medaglia. Ad ogni capitalismo il suo Kosovo (dove stanno di casa Irlanda, paese basco, Corsica?). Ad ogni capitalismo il suo binomio "democrazia" - coprifuoco. Ma, intanto, i Kosovo si moltiplicazno ovunque. Dove troverà la "democrazia" eserciti sufficienti ad assicurare il proprio "ordine"? |