Lavoratori immigrati
DA VITTIME DEL SACCHEGGIO IMPERIALISTA A PROTAGONISTI DELLA LOTTA PROLETARIA CONTRO IL CAPITALISMO
Negli ultimi dieci anni in Italia si è verificato a ritmo eccezionalmente accelerato quanto da tempo accaduto in altri paesi dell'occidente europeo come la Francia, la Germania o l'Inghilterra: l'impiego dalla manodopera extracomunitaria da fatto marginale e circoscritto è diventato un elemento indispensabile per l'andamento dell'"economia nazionale". Per il "democratico" capitalismo occidentale l'immigrazione ha rappresentato e rappresenta una provvida manna ricca di benefici: da un lato l'arrivo di tante braccia nere "disposte" (costrette) ad accettare livelli di ultra sfruttamento ha contribuito a calmierare al ribasso il costo della forza lavoro; d'altro lato e conseguentemente a ciò è andata di fatto, ora in maniera sorda ora palese, aumentando la concorrenzialità tra proletari (non solo tra indigeni e "colorati") frapponendo un'ulteriore seria difficoltà politica e materiale sulla strada della ripresa della lotta operaia.
Ma se all'immediato le contraddizioni sociali di cui è portatrice l'immigrazione extracomunitaria sembrano e, di fatto, stanno agendo in senso oggettivamente favorevole alla borghesia, essa è però sempre più consapevole di quanto l'enorme e sempre crescente afflusso di masse diseredate dal Sud del mondo sia gravido di enormi pericoli proprio per l'ordine sociale della metropoli occidentale.
Fame, guerre, feroci e sanguinarie dittature, carestie, insomma gli immani crimini che l'opera di costante e progressiva rapina imperialista provoca nel "terzo mondo", spingono inesorabilmente milioni di uomini e donne verso "l'opulento" occidente: importazione di "bestie da soma" da utilizzare semischiavisticamente certo, ma "importazione" della prova in carne e ossa della profonda crisi che attanaglia l'universo capitalista e i cui morsi più tremendi si abbattono per ora sulle sterminate masse della periferia. "Importazione", anche, d'un materiale umano che giunge carico di speranze, illusioni ed aspettative, ma che trovando solo oppressione e sfruttamento brutale è anche sempre più portato a comprendere come "le disgrazie sue e della sua terra" non siano casuali, ma il frutto dell'efferato saccheggio operato dal Nord sul Sud del mondo.
"Amici, compagni noi non abbiamo nessuna carità, nessun favore da chiedere; noi abbiamo abbandonato le nostre famiglie, le nostre città, i nostri villaggi perché le nazioni ricche hanno depredato i nostri paesi; noi dobbiamo organizzarci e rivendicare orgogliosamente i nostri sacrosanti diritti": queste le esplicite parole d'un lavoratore iraniano ad una affollata assemblea di immigrati a Roma. Ed è proprio per evitare che le contraddizioni di cui sono portatori i lavoratori di colore deflagrino in senso anticapitalista ed antimperialista che per i governi nostrani è sempre più urgente l'imperativo di "controllare e regolamentare" coercitivamente il flusso immigratorio. Detto in altri termini non si tratta di "buttare a mare" tutti gli africani e tutti gli asiatici per ridare la Francia ai francesi, la Germania ai tedeschi e l'Italia agli italiani, ma di limitare le entrate di immigrati adeguandole alle necessità complessive del mercato del lavoro (sia in termini di posti da coprire, sia in termini di un costante mantenimento d'un vasto esercito industriale di riserva), di impedire e scoraggiare il loro processo d'organizzazione e, soprattutto, di evitare ogni pericolosa solidarietà di classe con i proletari indigeni.
A tal fine tutta una serie di leggi, leggine, o semplici ma efficaci "disposizioni di fatto" di chiaro stampo xenofobo sono operanti da decenni in varie nazioni europee, ma è negli ultimissimi anni che, poggiando su un'"opinione pubblica" maggiormente incline a sentimenti razzisti, più marcatamente sono andate intensificandosi queste misure fino a giungere all'elaborazione di veri e propri accordi legislativi sovranazionali come quello stipulato nel 1985 a Schengen tra Germania occidentale, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo e a cui pare sia intenzionata ad aderire anche l'Italia.
Quest'accordo impegna le nazioni sottoscriventi ad eliminare progressivamente e velocemente le restrizioni ed i controlli doganali per i cittadini CEE, ma ad erigere una ferrea ed omogenea barriera contro l'immigrazione clandestina extracomunitaria, nonché ad armonizzare in senso restrittivo le rispettive politiche di concessione dei visti per il soggiorno degli immigrati di colore: il supermercato capitalista si blinda per respingere l'assalto dei diseredati.
Legge 943: un bilancio deludente
Per quanto riguarda l'Italia in particolare, il primo passo pesante legislativo in materia è stato l'entrata in vigore due anni fa dalla legge 943 presentata ipocritamente come "la democratica normativa atta al progressivo e paritario inserimento dei lavoratori extracomunitari". Intorno alla 943 si verificò a suo tempo una relativa convergenza tra partiti di governo e non. PCI e DP intendevano realmente introdurre una legge riformatrice e garantista per la massa degli immigrati illudendosi, come al solito, di poter imprimere una svolta "egualitaria" al capitalismo a colpi di decisioni parlamentari.
Per la maggioranza governativa DC-PSI, invece, essa rappresentò molto più concretamente e realisticamente una operazione selettiva e preventiva: selettiva in quanto mirante a stimolare la mentalità "d'integrazione" degli strati superiori e più colti degli immigrati e quindi a separarli dalla grande massa di essi; preventiva in quanto tendente a dare un certo illusorio credito alle istituzioni per frenare il processo di organizzazione e sindacalizzazione dei lavoratori di colore. Per la DC in particolare ha rappresentato anche una risposta "tranquillizzante" a quei settori del proprio eterogeneo campo sociale (per es. la Caritas) più sensibili alle condizioni degli immigrati "in quanto uomini".
Due anni sono bastati a dimostrare quanto pie illusioni fossero quelle del riformismo sulla 943 ed oggi lo stesso PCI si dichiara ampiamente insoddisfatto dei risultati raggiunti accusando gli organi di governo di averne boicottato la corretta applicazione. Ma, con buona pace del PCI, la 943 ha dato i soli frutti che avrebbe potuto dare. Supporre che una legge di per se stessa possa fornire elementi di tutela per gli sfruttati prescindendo dalla chiamata alla lotta ed alla organizzazione di essi, è semplicemente illusorio; ancora più irrealistico è ipotizzare ciò quando la sua applicazione avviene in un contesto sociale caratterizzato da rapporti di forza nettamente sfavorevoli alla classe operaia. Solo il 10% dei lavoratori di colore (per la precisione 104 mila) ha potuto o ritenuto conveniente "regolarizzare" la propria posizione, mentre per il restante 90% lo status di clandestino è diventato ancora più marcato: in sostanza la 943 non ha minimamente mutato le condizioni materiali della stragrande maggioranza ("regolarizzati" inclusi) degli immigrati.
Intanto il Ministero degli Interni da tempo sta studiando apposite proposte legislative da affiancare alla 943 per limitare "più efficacemente" il crescente flusso immigratorio. Sul numero 2 del settimanale "Avvenimenti" (8/3/89) è stata pubblicata una dettagliata anticipazione del relativo disegno di legge del Viminale. Essa è così riassumibile: piena e totale discrezionalità delle questure nel concedere l'ingresso in territorio italiano ed altrettanta completa discrezionalità nel decretare le espulsioni dal suolo nazionale. Il ministro Gava, intervistato dal Tg2, ha smentito di essere a conoscenza di tale progetto, ma ha altresì affermato che molto probabilmente esso è in fase di studio avanzato presso gli appositi uffici ministeriali. Quel che è certo è che negli ultimi mesi si è assistito ad un irrigidimento dell'atteggiamento delle questure (vedi ad es. il rifiuto, operato in base all'art. 152 del T.U. di P.S. datato 1931, di concedere il permesso di ingresso a 96 tunisini perché privi di mezzi di sussistenza ed il loro rispedimento in patria nel dicembre dell'88) e che il numero delle espulsioni è notevolmente aumentato (a Napoli, ad esempio, con inconsueta puntigliosità e "precisione" burocratica molti "studenti" di colore sono stati recentemente espulsi per non aver sostenuto i tre esami annualmente necessari per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno).
Pur tra grandi difficoltà, i lavoratori immigrati si organizzano
Dunque nubi sempre più scure all'orizzonte per i lavoratori di colore, ma anche in questo clima crescentemente ostile il loro processo di sindacalizzazione continua a progredire. Molti e pesanti sono gli ostacoli che si pongono su questa strada per gli immigrati (a cominciare innanzitutto dalle gravi difficoltà che tuttora avvinghiano la ripresa della lotta della classe operaia "italiana"), ma nonostante tutto l'organizzarsi in quanto lavoratori, il riconoscersi uguali in quanto sfruttati al di là delle differenti nazioni di provenienza, razze e religioni è da essi visto sempre più come una stretta necessità, come l'unica realistica possibilità di difesa. Chiaro sintomo di tutto ciò è la progressiva perdita di capacità d'attrazione nei loro confronti da parte delle varie forze dell'assistenzialismo cristiano-umanitario ed il parallelo ed opposto "aumento d'attenzione" verso PCI e CGIL.
Questo per il riformismo operaio-borghese non è assolutamente privo di conseguenze, anzi in prospettiva è fattore destinato a scatenare laceranti contraddizioni al suo interno.
Già oggi il PCI, che è spinto dalla sia pur ancora timida pressione dei lavoratori di colore ad assumerne in un certo qual modo la tutela, vede ciò confliggere irrimediabilmente con gli interessi di altri cospicui ceti sociali per esso importantissimi. Non è certo casuale che il perno del proprio programma sugli immigrati sia il riconoscimento per essi del diritto di voto attivo e passivo alle amministrative. A tal proposito ha detto bene e un pò polemicamente il rappresentante della comunità dello Sry Lanka: "Prima di costruire il salotto costruiamo la cucina". Già, ma costruire la cucina, cioè farsi carico dei bisogni fondamentali degli immigrati, significa "urtare la suscettibilità (il portafoglio)" dei commercianti "rossi" romagnoli che l'estate scorsa scatenarono una canea razzista contro gli ambulanti di colore, significa mettersi contro gli industrialotti emiliani che "democraticamente" supersfruttano lavoratori africani negli altiforni, significa insomma ledere vitali interessi proprio di buona parte di quel "ceto medio produttivo" al cui recupero e mantenimento elettorale agogna il PCI. E inoltre potrebbe mai il partito d'Occhetto farsi carico della necessaria ed indispensabile denuncia del ruolo di banditesca rapina imperialista svolto dall'Italia nel "terzo mondo" quando è sempre più proteso ad accreditarsi come "responsabile forza nazionale di governo"?
Non vacui piagnistei ma lotta unitaria tra proletari "bianchi" e "di colore"
Come si può approntare un'efficace difesa facendo propria la linea espressa dal segretario della CGIL alla recente assemblea nazionale dei Comitati per il lavoro? A chi proponeva obiettivi unificanti per tutto il mondo del lavoro nero e marginale Trentin ha risposto: "È la stessa richiesta di lavoro per una donna del Sud e una del Nord? Per un lavoratore handicappato e per un lavoratore immigrato? No, le richieste non possono che essere diverse. Proprio come diverse sono le persone e le aspirazioni". All'istintiva ed elementare ricerca dell'unità tra proletari si risponde con una sorta di "divisi è bello". Se da un lato il bilancio sulla "deludente" esperienza della 943 (in una recente assemblea indetta a Roma da CGIL-CISL e UIL molti immigrati hanno criticato più o meno esplicitamente la legge affermando la necessità di "operare come minimo" modifiche strutturali che almeno la rendano meno "sconveniente") e l'accentuarsi dell'atteggiamento repressivo dello Stato spingono i lavoratori di colore a fidarsi sempre meno delle "democratiche" istituzioni italiane e, di contro, a ricercare un "avvicinamento" con la classe operaia indigena (anche in questo senso va letto il loro interesse verso PCI e CGIL) vista come unico affidabile alleato; d'altro lato il riformismo chiuso nei sempre più angusti limiti delle compatibilità capitalistiche è strutturalmente incapace di promuovere l'unità nella lotta e nella mobilitazione tra proletari "locali" ed immigrati. Proprio per questo i proclami contro la "cultura razzista" tanto cari a PCI, FGCI e CGIL più tempo passa e più somigliano a lamentosi ed inconcludenti piagnistei.
Il razzismo lungi dall'essere un "fenomeno culturale" (come ben sa la borghesia), affonda le sue radici in fattori strettamente materiali: se alta è la disoccupazione, se mancano le case, se i posti in ospedale sono scarsi e, soprattutto, se langue la lotta operaia, è facile che anche settori proletari vedano nel nero, nello zingaro, nel "diverso" un pericoloso concorrente da sconfiggere. Di fronte a ciò non servono "battaglie culturali", ma la chiamata alla mobilitazione dei lavoratori per la intransigente e decisa difesa delle proprie condizioni a prescindere e contro le compatibilità dell'"economia nazionale".
I lavoratori di colore, pur tra mille difficoltà, si stanno organizzando contro i propri sfruttatori, ma per procedere su questa strada hanno bisogno di trovare nel proletariato italiano un sicuro punto di riferimento. Quest'ultimo da parte sua da questo processo ha solo da guadagnarne (a cominciare da una minore ricattabilità) e deve appoggiarlo col massimo della solidarietà militante, ma per far ciò è innanzitutto indispensabile che riprenda a battersi apertamente contro governo e padroni. Infatti operai divisi e disorganizzati possono essere preda di sentimenti di indifferenza o, peggio, di ostilità verso gli immigrati, ma una classe operaia fieramente in lotta sarà pronta a vedere in essi un proprio prezioso alleato per la comune battaglia contro lo sfruttamento capitalistico.
Contro le leggi xenofobe approntate dal Ministero degli Interni.
Contro ogni chiusura totale o parziale delle frontiere per i lavoratori di colore.
Per la loro organizzazione e sindacalizzazione di massa.
Per l'unitaria lotta tra proletari "bianchi" e di "colore".