AMERICA LATINA: L'INTERO
MONDO DEGLI SFRUTTATI SI E' MESSO IN MOVIMENTO
Stretti alla gola dalla dominazione imperialista, anche i più grandi e industrializzati paesi del Centro e dei Sud America, il Brasile, il Messico, il Venezuela, sono scossi da conflitti sociali e politici sempre più profondi.
Attraverso scioperi generali, rivolte, e perfino elezioni e referendum, sta prendendo corpo una battaglia anti-imperialista ed anti-capitalista di portata mondiale.
Nel corso di essa, la massa dei lavoratori e degli sfruttati latino-americani, che ne è protagonista, comincia a prendere coscienza che solo emancipandosi dalla sua storica subalternità alle "proprie" borghesie, potrà riscattarsi da una condizione di dura schiavitù salariata e di fame.
"Il problema dei debiti è ormai così grave che tutta l'America latina sta perdendo fiducia nei confronti della democrazia. Ciò fa apparire il marxismo come la soluzione più facile". Questa affermazione di Sarney, presidente del Brasile, contiene più verità che retorica. Infatti gli anni '80, che si erano aperti con il "non possiamo pagare" del governo messicano, vanno chiudendosi con il "non vogliamo pagare" che, sempre più esplicitamente, milioni di sfruttati gridano con rabbia dai quattro angoli dell'America latina.
Il Continente a Sud del Rio Grande vive la più grave recessione della sua storia. Lo sviluppo pur iper-dipendente e iper-squilibrato dei decenni precedenti si è prima bloccato, poi invertito. L'America latina declina.
Come sia arrivata a questo punto è quasi di pubblico dominio. Il peso crescente del debito estero e la caduta del prezzo delle materie prime ne hanno, ad un tempo, accresciuto le uscite e decurtato le entrate. L'accumulazione è divenuta impossibile. Gli investimenti, crollati nell'82-'85 (-40%), sono in seguito rimasti stagnanti. L'industria e l'agricoltura latino-americane hanno perso competitività. Esclusivamente l'estrema torchiatura dei lavoratori e l'inflazione a due, tre e finanche quattro cifre, vera e propria droga per le esportazioni, hanno limitato la caduta (a vantaggio dei capitalisti). Ma falciare il potere d'acquisto dei salari, mentre la disoccupazione, la sottoccupazione e l'emarginazione sociale sorpassano di continuo ogni argine, equivale a ridurre il mercato interno. Vengono a mancare altri stimoli alla produzione. Così, preso dentro la perversa spirale dell'indebitamento, della recessione, il ricchissimo Continente si svena. Ed anche solo per assicurarsi una stentata sopravvivenza, gli sfruttati latino-americani sono costretti a ricomprarsi a caro prezzo parte del loro proprio sangue (del plusvalore ceduto all'imperialismo) dal loro "proprio" strozzino.
Il perché l'America latina sia arrivata a questo punto è oggetto di interessata mistificazione. "L'America latina - ha scritto il giornale della Confindustria- aspira allo sviluppo economico, alla giustizia sociale e alla libertà". Senonché questi tre obiettivi sono "nel Terzo Mondo difficilmente conciliabili". Laggiù, se si vuole Io sviluppo economico, cioè lo sviluppo dei profitti capitalistici, bisogna in qualche misura rinunciare alla democrazia, alla "giusta" distribuzione del reddito, al nazionalismo. Per sfuggire ad un "lento suicidio", perciò, l'America latina moderi le sue pretese, anzitutto quelle del suo proletariato - s'intende! - verso il capitalismo imperialista.
È vero l'opposto. Se l'economia latino-americana è in ginocchio, è perché il capitalismo mondiale, alle prese con i primi tornanti della sua crisi generale, ha scaricato su di essa e sul Sud del mondo nel suo complesso, i costi maggiori.
Non è più in grado di garantire all'America latina non diciamo la "giustizia sociale" (quando mai e sotto quale latitudine lo ha fatto, del resto?), ma la stessa continuazione di una crescita economica storpiata. Può, anzi deve, rivendicare la massima libertà soltanto per se stesso: libertà di accaparrarsi territorio, capitale-macchine e forza-lavoro dei debitori mandati, non andati, in rovina. L'ulteriore centralizzazione del capitale deprime il capitale meno concentrato. Classico omicidio capitalistico, dunque; non certo suicidio da utopie di "giustizia sociale".
L'America latina è, obiettivamente, in rotta di collisione con l'imperialismo. Lo scontro può essere posposto (a questo stanno servendo le fragili democrazie sud-americane e gli occasionali piani di salvataggio dei debitori più esposti), ma non evitato. È in questo contesto che il marxismo, ovvero la rivoluzione sociale anti-imperialista e anticapitalista, pur non essendo mai la soluzione "più facile", illustre Sarney, si presenta, per il proletariato, come l'unica reale alternativa liberatoria alla catastrofe della regressione economica e umana.
La situazione attuale è profondamente diversa da quella degli anni '30. Oggi come allora l'America latina è dentro una grave recessione. Ma al presente, diversamente da allora, è incorporata in modo organico nel sistema capitalistico mondiale.
Negli anni '30 il capitalismo latinoamericano poté, per così dire, allentare il cappio imperialista perché il suo legame di dipendenza dal capitale finanziario inglese ed europeo era assai meno stretto di quello che oggi lo subordina agli USA e all'Occidente tutto. Per un quarto di secolo circa, fino alla invasione in forze del suo nuovo e più potente padrone, l'industriale e il banchiere yankee, il Sud America, pur con grandi lacune tecniche e senza poter cancellare le cicatrici di secoli di colonizzazione, è riuscito ad incrementare la propria industria. Sostituzione delle esportazioni con l'allargamento del mercato interno, un certo grado di dirigismo statale sull'economia, la collaborazione - non senza contropartite materiali - del debole proletariato: questa "magica" combinazione, che fece le fortune del populismo latinoamericano dei Càrdenas, dei Vargas, dei López, dei Peron, dei nazionalrivoluzionari boliviani, ha funzionato senza troppi intoppi esterni solo fintantoché la contesa per il controllo del mercato mondiale è andata infuriando altrove, in Europa, in Asia, in Africa.
Con l'instaurarsi a scala universale della "pax americana" in luogo di quella inglese, l'America latina è caduta sotto una tutela imperialista ben più forte e diretta di quella precedente. Ora essa funziona come un importantissimo retroterra strategico del sistema di sfruttamento e di dominio nordamericano (e occidentale tutto) che, dato ciò, possa realizzarsi una sorta di pacifico sgusciare dalle grinfie di Wall Street, è escluso in assoluto. Chi può dubitarne?
Vi è una seconda, determinante differenza tra la situazione attuale e quella degli anni '30. Allora in un Continente latino-americano a netta prevalenza agricolo, il proletariato, e specificamente la classe operaia, costituiva una porzione trascurabile, talvolta insignificante, della popolazione. La massa degli sfruttati era composta dai contadini poveri, dal disgregato semiproletariato campesino.
Oggi, pur attorniato e quasi "assediato" da un lato da ceti medi declassati e dall'altro da un mare di diseredati sradicati dalle campagne, e per questo doppiamente esposto sul piano politico, un proletariato industriale sufficientemente forte, sul piano strutturale, da diventare la guida del fronte degli sfruttati, c'è.
E si fa vedere.
Brasile: classe operaia e diseredati in avanscena
Per utilità dei nostri lettori abbiamo indicato nel riquadro qui a fianco i principali avvenimenti degli ultimi tempi nei quali è tangibile, spesso preponderante, talvolta addirittura esclusivo, il peso del proletariato.
Il posto d'onore in questa sommaria rassegna spetta al grande, storico, movimento degli scioperi di massa del proletariato brasiliano.
Il Brasile è l'ottava potenza industriale del mondo; da solo concentra il 40% della produzione latinoamericana ed il 45% della produzione industriale continentale (con settori ad alta tecnologia quali l'elettronica, l'aeronautica, la chimica fine, etc.). E' il quarto produttore ed esportatore di alimenti del mondo. Dire Brasile, inoltre, significa dire Esso, Ford, Volkswagen, Fiat, Siemens, Nabisco, Mac Donald's, Gardini, il Gotha delle multinazionali. Il suo debito (e cioè il suo governo) è nelle mani di alcune tra le più potenti banche del mondo (Citycorp. Chase Manhattan, Morgan e così via).
Ne consegue che la scesa in campo del suo proletariato scuote non solo l'albero del capitalismo nazionale, ma l'intera foresta del capitalismo mondiale.
Il proletariato brasiliano nasce alla lotta di classe ben prima dell'ultimo decennio. Già nel 1895 - sulla scia dell'emigrazione italiana - conosce i primi periodici operai, tra cui "L'Avanti". Già nel 1908 si dota di una prima "Confederation" sindacale, ovviamente a guida anarchica. Ma sono esperienze che lasceranno labili tracce, tant'è che allo svolto della costituzione dello "Estado novo" la ridotta classe operaia brasiliana si lascia inquadrare senza particolari resistenze dentro l'intelaiatura ideologica ed istituzionale del populismo getulista, all'interno della quale rimarrà, in sostanza, ininterrottamente per oltre 35 anni. La parziale rottura di questa subordinazione (non scalfita di certo, per l'essenziale, dall'esistenza e dall'azione di un PCB prima tendente all'anarco-massimalismo e poi accodatosi alla borghesia "nazionale") si dà, su scala di massa, con gli scioperi dei metallurgici di Belo Horizonte e di San Paolo della primavera-estate del '68 che, avviatisi su un terreno salariale, assunsero toni per la prima volta globalmente antigovernativi. È questo il seme del nuovo, vero inizio del movimento operaio in Brasile.
La dittatura militare riesce a procrastinarne l'emergere alla superficie per non più di un decennio, al prezzo di conferirgli sin dal principio un marcato carattere politico. I grandi scioperi dei metallurgici della fine degli anni '70 sono espressamente contro il governo militare, di cui anticipano, nelle piazze, quell'atto di morte che qualche testa ultra-pensante crede sia stato scritto, a freddo, nelle stanze segrete della Trilateral. Arriva al capolinea anche il "sindacalismo pelego", il sindacalismo di stato cresciuto all'ombra del corporativismo populista. Nascono insieme, ad esprimere lo strettissimo intreccio di economico e politico, un nuovo sindacato, che si autodefinisce "autentico, militante" ed un nuovo organismo politico, il "Partido dos Trabalhadores", intorno ai quali si sono organizzati, in dieci anni, non meno di dieci milioni di sfruttati.
Il gigante addormentato, risvegliatosi d'improvviso, inizia a flettere e stirare i suoi arti. Luglio '83, marzo '85, dicembre '86 (il primo sciopero generale in "regime democratico"), novembre '88, marzo '89: sono le tappe, sempre più errate, del suo pieno risveglio. Il risultato fondamentale di questo seguito di lotte è il sorgere, in masse di lavoratori, di un sentimento di classe, di una coscienza - per confusa che sia - di avere propri, distinti, interessi di classe, è il passaggio dalla passività alla azione diretta, dalla disorganizzazione all'organizzazione.
Sulla forza mostrata dal movimento operaio nel recente sciopero generale valga la testimonianza di "Business Week": "Nelle due giornate di sciopero generale, i sindacati (CUT e CGT - ndr) hanno mostrato i loro muscoli lungo tutto il Brasile, dalle più grandi città ai più sperduti villaggi. I pubblici trasporti sono rimasti paralizzati, produzione e commercio sono stati duramente colpiti, e migliaia di scuole, ospedali ed altri pubblici servizi sono restati chiusi. In un paese in cui il movimento dei lavoratori è stato generalmente visto come impotente, per lo meno la metà di 50 milioni di salariati dei Brasile è rimasto a casa... I sindacati avevano tentato di promuovere scioperi nazionali di questo tipo nel 1986 e nel 1987, ma avevano riportato un insuccesso (è vero solo in parte - ndr).Questa volta, invece, hanno avuto un sostegno di gran lunga più ampio ed hanno goduto di un'organizzazione di gran lunga migliore... 'E' stata l'ampiezza dello sciopero ad essere impressionante', afferma un banchiere brasiliano di Rio...' Questo sciopero è stato un successo perché ha messo assieme un complesso di elementi, e non soltanto delle rivendicazioni economiche', sostiene una fonte diplomatica occidentale... Che Lula vinca le elezioni presidenziali o no, il Brasile (il capitalismo in Brasile e in Occidente - n.d.r.) deve imparare a fronteggiare una forza lavoro più militante".
Gli stessi accadimenti su cui ha incentrato la sua attenzione la stampa "riformista", il passaggio del regime militare alla democrazia e il recente successo elettorale del PT, possono essere compresi nel loro reale significato solo entro il quadro di accesa lotta di classe del proletariato e degli sfruttati che abbiamo appena richiamato.
L'essere alieni dal feticismo della democrazia non ci impedisce di comprendere, da materialisti, che bene ha fatto la massa dei lavoratori a non tirarsi fuori dal dilemma dittatura militare o democrazia rappresentativa, caratterizzando l'opzione per la seconda con proprie istanze "democratiche" (pieno ed incondizionato diritto di sciopero, piena ed incondizionata libertà di organizzazione politica e sindacale, soppressione di ogni potere d'intervento del Ministro del lavoro nella vita dei sindacati, etc.), senza le quali lo stesso involucro democratico è privo di senso per gli sfruttati. Ed ancor meglio ha fatto quando ha mantenuto ferme queste rivendicazioni anche di contro alla democrazia di facciata del PMDB e, soprattutto, quando ha imposto con la forza dei fatti ciò che la "Costituzione democratica" continua ad escludere.
Dal pari, se Luiza Erundina descrive la sua ascesa a sindaco di San Paolo quale "primo passo per la instaurazione del socialismo in Brasile", non la prendiamo sul serio, ma quando la sentiamo dire che "le donne (le donne lavoratrici - n.d.r.), i discriminati, gli oppressi, cominciano a proiettarsi (sulla scena) attraverso la mia vittoria", noi, da lontano, siamo inclini a crederle.
Solo un becero opportunismo potrebbe far scambiare l'attuale dirigenza della CUT e del PT per una direzione marxista rivoluzionaria o imparentata al marxismo rivoluzionario, sia pure alla larga e inconsapevolmente. No. Se un Lula trova una certa affinità addirittura con la CISL internazionale e si riconosce nella prospettiva politica "socialista democratica", non lo si può ascrivere soltanto ad impreparazione ed ingenuità (che non sono più sia detto per inciso, quelle del '79). C'è evidentemente un terreno comune, o meglio la tensione ad avere un terreno comune, con il sindacalismo e il riformismo social-scivionista. E non è, altrettanto evidentemente, il terreno della lotta a fondo al capitalismo mondiale.
Ma, quando questi provvisori capi del proletariato in Brasile rivendicano "il non pagamento del debito estero e la fine della subordinazione alla politica economica imposta dal FMI"; quando, insieme alla massa dei lavoratori, richiedono una più equa ripartizione del reddito, in un paese dove il 10% dei ricchi s'appropria della metà del reddito nazionale, mentre il 70% degli abitanti vive mediamente con 35-40 dollari al mese; quando, contro i latifondisti e i grandi proprietari terrieri che spadroneggiano nelle campagne, assieme ai "senza terra" sfruttati e talora ancora "schiavi", reclamano la riforma agraria che tanto i militari quanto la democrazia di Sarney negano; quando denunciano, alle sorde orecchie degli incalliti burocrati sindacali europei, che le multinazionali europee si rifiutano di concedere in Brasile condizioni salariali e "diritti sul lavoro" almeno paragonabili a quelli che accettano in Europa; quando si fanno promotori di un fronte degli sfruttati latino-americani per il non pagamento del debito imperialista; cosa fanno , da "socialisti democratici", da "cristiano-marxisti" (!!) come piace dire alla Erundina, se non sollevare tutti i temi della battaglia contro lo sfruttamento e la dominazione capitalista-imperialista?
I nostri fratelli di classe brasiliani si sono scrollati definitivamente di dosso il "compromesso populista" con la "propria" borghesia. In un lasso ridotto di tempo, hanno compiuto non uno solo, ma successivi balzi in avanti verso l'autonomia di classe. La strada da compiere, per essi e per il proletariato internazionale tutto, è ancora lunga ed ardua. Ma se l'ovvio è così carico di promesse, il prosieguo non mancherà di mettere alla prova anche l'inconseguente (rispetto agli interessi generali e storici degli sfruttati) riformismo "antimperialista" e "operaio" alla Lula.
Messico: si sgretola il blocco sociale del PRI
Un processo nel fondo analogo, pur se con dinamica di necessità diversa, sta avvenendo in Messico, altro paese-chiave del sistema capitalista e imperialista in America latina. Qui la crisi degli anni '80 ha finito di mandare in frantumi quell'unità tra borghesia "nazionale" (organizzata nel PRI), classi medie, contadini e classe operaia che si realizzò negli anni '30, complice lo stalinismo, sotto la guida di Lazaro Càrdenas, e che aveva a sua volta come retroterra la "rivoluzione popolare borghese, antioligarchica e anti-imperialista" degli anni 1910-1914.
La polarizzazione sociale e politica attuale è il risultato dello stesso sviluppo capitalistico messicano, latinoamericano e mondiale, prima ancora che del suo arresto. La crisi non ha avuto che la funzione di detonatore entro una società radicalmente mutata dagli anni '30. Una volta di più i rapporti sociali avanzati hanno destabilizzato un organismo politico decrepito.
Questo grafico, tratto da "The Economist" del 16.4.1988, illustra come è variato, in media annua, il prodotto interno lordo (PIL) pro capite nei diversi paesi latino-americani negli anni 1980-1987. "Gli alti tassi di interesse, la caduta dei prezzi delle materie prime e il crollo dei prestiti bancari internazionali - commenta il giornale inglese - hanno imposto un pesante pedaggio sulle economie latino-americane negli anni '80. Il PIL pro capite è cresciuto in media, nei sette anni, dall'1,5%, ma la popolazione è cresciuta più velocemente... Il declino delle condizioni di vita è stato particolarmente acuta nei paesi più poveri. Dal 1980 il PIL pro capite è caduto in Bolivia del 27% (il che equivale ad un declino annuo del 4,5 %), in Guatemala del20%, in Nicaragua del17%. II Brasile, il cui PIL è pari ai 2/5 di quello dell'intera regione, è uno dei tre paesi il cui reddito pro-capite è cresciuto, seppure soltanto di uno 0,6% annuo. Gli altri due sono Panama e Colombia, paesi del contrabbando di droga". Bisogna precisare che il PIL pro capite, see è misura approssimativa del regresso o della stagnazione dell'economia nel suo insieme, nulla dice, in quanto indicatore interclassista, sul come regresso e stagnazione si sono riflessi sulle differenti classi sociali. Secondo stime dell'ONU, il livello delle condizioni di vita dei lavoratori è sceso, mediamente, dal 20-30% e la massa di chi vive al di sotto della "soglia di povertà"è salita dai 130 ai 165 milioni e potrebbe toccare, nei prossimi 5-6 anni, i 200 milioni, la metà di tutta la popolazione del Continente. Quanto al Brasile, i dirigenti della CUT denunciano che il potere d'acquisto dei salari operai, con l'impazzimento dell'inflazione fino al 1.000%, si è dimezzato negli ultimi due anni. E l'altra faccia del "boom" reaganiano! |
Il PRI, il partito che aveva monopolizzato il potere politico per un sessantennio in quanto sintesi (borghese) tra interessi di classi antagoniste, d'improvviso si è spaccato. La sua ala sinistra, che si riconosce in Càrdenas figlio, è stata costretta, dall'alto e dal basso, ad autonomizzarsi, mentre la sua maggioranza, che si riconosce in Salinas, altrettanto dall'alto e dal basso (ma di altre forze sociali), era costretta a piegarsi ai dispacci "neoliberisti" dell'imperialismo USA e del FMI.
Il populismo messicano degli anni '30 aveva saputo governare il giovane capitalismo, come osservò Trotskij, "manovrando con il proletariato e giungendo perfino a fargli delle concessioni, assicurandosi in tal modo la possibilità di una certa libertà nei confronti dei capitalisti stranieri" (nel 1936, ad es., Càrdenas nazionalizzò l'industria petrolifera e le ferrovie). L'erede formale, "istituzionale", di quel populismo non può più barcamenarsi tra i due campi nemici, proletariato ed imperialismo, divenuti l'uno più forte e minaccioso, l'altro più esigente e usuraio. Di conseguenza, la gran parte del PRI si schiera, pur recalcitrando un pò, con i diktat "risanatori" del FMI, della Banca mondiale e dell'amministrazione americana. Il governo di De La Madrid prima, quello di Salinas ora mettono in pratica la linea delle privatizzazioni generalizzate (1.400 imprese statali privatizzate negli ultimi 6 anni su un totale di 1.800), che si attua non per caso all'unisono con la massima apertura al capitale straniero (che è per i 2/3 nordamericano). È la ricetta friedmaniana che gli economisti di Pinochet già hanno sperimentato, sulla pelle dei lavoratori, in Cile. Il bersaglio di questa politica è da un lato lo "stato imprenditore", dall'altro lo "stato populista", il davvero misero "welfare state creolo" che, pur avendo fatto crescere abbondantemente alla propria ombra le filiali delle multinazionali e la miseria delle classi sfruttate, è ritenuto ora un ingombro per la profittabilità. Ai falchi della finanza imperialista non è sufficiente che il salario operaio medio sia andato giù a precipizio (un Maggiolino Volkswagen vecchio tipo costa oggi in Messico l'equivalente di 8 anni di salario operaio!), non è sufficiente che la sottoccupazione sia arrivata al 40% della forza-lavoro complessiva, né che i servizi sociali siano a tal punto inesistenti che 6-7 milioni di abitanti a Città del Messico vivono senz'acqua corrente e senza null'altro. Essi impongono a Salinas e soci "riforme di stile thatcheriano che promettono di chiudere fabbriche e di spezzare le ossa ai sindacati (così come) il suo programma anti-inflazionistico (promette) di portar giù i salari" ("Business Week", 3 aprile'89). Anche i "corrotti" e "burocratici" sindacati "istituzionali" che fanno capo alla CTM sono da spezzare. Non certo in quanto corrotti e burocratici, ma perché le loro strutture non sono state in grado, specie a livello di base e medio, di rimanere impermeabili allo scontento crescente, al crescente risveglio politico del proletariato messicano.
Il brutale attacco ai burocrati della CTM e del sindacato del settore petrolifero è, in ultima analisi, un brutale attacco preventivo all'intero fronte dei lavoratori e finanche agli ex-"privilegiati" operai del petrolio, il cui salario era, nel decennio scorso anche 10 volte superiore a quello medio, mentre oggi ne è appena il doppio. Ancora nel 1983 era stato possibile, entro lo stesso quadro tracciato dal FMI, a governo, associazioni padronali e CTM, concludere un "Pacto de solidaridad nacional" che oggi è null'altro che carta straccia.
E, si badi, un settore della borghesia e delle classi medie è già dislocato ben oltre Salinas, con il PAN, espressione messicana di una tendenza che va estendendosi a tutto il Continente all'aggregazione di un polo di destra aggressivamente filo-imperialista, a composizione in prevalenza o in parte "civile", come i "liberali" brasiliani, la peruviana coalizione del "libero mercato" di Vargas Llosa, i transfughi "moderati" dal partito di Pinochet, la stessa "Arena" salvadoregna, e cos' via.
Mentre il PRI di Salinas promette di trasformare il Messico in una tigre di tipo asiatico, i lavoratori dell'industria e le masse diseredate mostrano, con le lotte, di avere differenti "sogni". Il tremendo terremoto dell'85 riaccese in essi una passione politica che più che sopita sembrava dissolta. Con le bandiere rosse ricomparvero nelle strade e nelle piazze di tutte le maggiori città proteste dei senza-tetto, degli operai (l'agitazione degli elettrici della primavera dell'87 mise in subbuglio l'intera classe operaia), degli studenti, dei parenti delle migliaia di desaparecidos. Il massimo della mobilitazione politica delle masse sfruttate la si è raggiunta, sinora, nella campagna elettorale a sostegno della candidatura di Càrdenas.
Il "rassemblement" che ha fatto capo a costui, non si può certo definire il fronte degli sfruttati. Comprende, infatti, anche quei settori minori di borghesia che si sentono colpiti dall'"apertura" totale del mercato interno, settori dei ceti intellettuali che resistono all'americanizzazione settori dell'apparato statale e sindacale che vorrebbero difendere i propri privilegi messi in questione dalla "salinastrojka"; per converso, non ha richiamato sotto le proprie insegne la totalità e forse neppure la grande maggioranza dei lavoratori e dei diseredati, non ancora disincantati definitivamente dal "neo-liberismo" priista, non ancora convinti che l'epoca del populismo è chiusa definitivamente perché "non c'è più nulla da distribuire".
Il programma di Càrdenas è più "nazionale" che "operaio". Calca la mano più sull'uscita dal sottosviluppo attraverso l'integrazione politica ed economica con l'America latina che sull'innalzamento dei salari e la maggiore democrazia sindacale e - tanto meno - sul "potere" dei lavoratori. Nondimeno intorno ad esso si è formata, come ha ammesso la stampa americana, una "enorme mobilitazione sociale" sostenuta dai lavoratori, dai diseredati e da una parte delle classi medie impoverite.
Lo schieramento cardenista è stato deriso quale "a patchwork quilt", una sorta di arlecchinesca trapunta. E tale al momento è, proprio perché ancora il proletariato non è in grado, pur essendosi messo in movimento, di dare ad esso la propria impronta di classe. È un buon sintomo indiretto della sua forza, però, il fatto che, come riconoscono gli immancabilmente filocardenisti di "Imprecor", la leadership borghese "di sinistra" è "molto prudente riguardo all'organizzazione delle masse". La capiamo, la capiamo.
Il nostro rapido esame potrebbe allargarsi alla sollevazione di massa in Venezuela ("una protesta contro i ricchi e contro la banda degli usurai", ha detto un amico dei ricchi e degli usurai), agli scioperi generali del Perù, di Haiti, del Cile e via dicendo.
La realtà è chiara: l'America latina discende nella crisi, la lotta di classe del proletariato e degli sfruttati è in ascesa (nonostante l'accerchiamento e l'arretramento della rivoluzione in Nicaragua). Rispetto agli anni '50 e '60, l'epicentro del movimento delle masse va spostandosi dai contadini al proletariato, dall'area caraibica "minore" al "cuore forte" del centro e del Sud America, il Brasile, il Messico. Si va scavando un solco sempre più profondo non solo tra sfruttati e imperialismo, tra sfruttati e gli eredi dei regimi militari, ma finanche tra gli stessi sfruttati e i partiti del "cambiamento democratico" dei Sarney, degli Alfonsin, dei Garcia, dei Peres, poiché nessuno di essi è stato in grado di colpire realmente il meccanismo di sfruttamento della dominazione imperialista e di elevare realmente le condizioni di vita dei lavoratori. Al contrario.
I destini dell'America latina e degli USA sono intrecciati, ha affermato giustamente, con formula semmai troppo restrittiva, Kissinger. Di qui i conciliaboli e le manovre per "aiutare" i governi "amici" a schiacciare, pardon a "fronteggiare una forza-lavoro più militante". Saprà il proletariato metropolitano, sapranno i rivoluzionari sostenere, con tutte le proprie forze e incondizionatamente, come propria, fa battaglia anti-imperialista e anti-capitalista degli sfruttati latinoamericani?
l'America Latina 1988 *6 luglio: in Messico, alle elezioni presidenziali, dopo sessanta annidi monopolio del potere politico, viene clamorosamente sconfitto il PRI. Rovesciando il verdetto delle urne che aveva visto vincente un'appena nata coalizione "di sinistra", il candidato ufficiale Salinas, pupillo yankee, si proclama presidente nel segno della continuità. Ma il Messico non sarà mai più quello di prima. *5 ottobre: in Cile, nel referendum istituzionale, vince il "no"a Pinochet. Il suo regime ne è indebolito, anche se ci vorrà ben altro che una scheda per abbatterlo e per colpire a fondo gli interessi che protegge. Per converso, prendono maggiore impeto le agitazioni operaie e si estende la ripresa del processo di sindacalizzazione, già in atto da qualche tempo. *13 ottobre: sciopero generale in Perù contro il piano di austerità varato dal governo del socialdemocratico Garcia su imposizione delle banche creditrici. *9-12 novembre: in Brasile almeno mezzo milione di operai entra in sciopero per ottenere l'adeguamento dei salari all'inflazione. Tra essi i 18.000 siderurgici di Volta Redonda, vicino Rio de Janeiro, che richiedono anche la riduzione da 8 a 6 delle ore di lavoro giornaliere. Centinaia di soldati, col supporto di carri armati, attaccano la fabbrica occupata: 8 operai vengono assassinati, centinaia feriti. Gli operai marciano sulla città di Volta Redonda e ingaggiano battaglia con la polizia; il giorno dopo trasformano i funerali dei compagni uccisi in una potente manifestazione politica. *15 novembre: sempre in Brasile, alle elezioni municipali, il piccolo "Partido dos Trabalhadores", dal programma nettamente connotato da riformismo "operaio", assume la guida della prefettura di San Paolo e di altri importanti centri industriali. Disfatta del PMDB al governo, insidiato sulla destra da nuove formazioni politiche "liberali". *Sciopero generale ad Haiti, contro la giunta "duvallierista"del gen. A vril, per i "diritti democratici", lo scioglimento e la punizione delle bande dei Tonton Macoutes e migliori condizioni di vita. *1 dicembre: altro sciopero generale in Perù. Garcia, pressato dai militari e dallo schieramento filoimperialista di Vargas Llosa, dichiara illegali gli scioperi e ordina l'arresto di centinaia di militanti ed organizzatori sindacali. 1989 *17 gennaio: nuovo sciopero generale ad Haiti, con le stesse rivendicazioni di quello del novembre, ed in aggiunta la solidarietà agli operai in lotta delle due più grandi fabbriche di Port au Prince. *fine febbraio: in Venezuela, l'ex "isola felice" dell'America latina, su disposto del FMI, il socialdemocratico Peres (che è uno dei vicepresidenti dell'Internazionale Socialista) vara provvedimenti che determinano contemporaneamente il balzo dei prezzi e il taglio drastico dei sussidi ai più poveri. Si sollevano milioni di diseredati. Solo un tremendo bagno di sangue frena la rivolta. *14-15 marzo: in Brasile, "un paese in cui il movimento dei lavoratori è stato generalmente visto come impotente, almeno la metà dei 50 milioni di salariati" aderisce (lo scrive il "Business Week" del 27.3.1989) allo sciopero generale proclamato dalla CUT e dalla CGT in difesa del salario, contro la miseria delle masse e la corruzione imperante ai vertici dello Stato. È il più grande sciopero della storia latino-americana. *16-18 marzo: in Salvador, il boicottaggio contro le elezionif-arsa vinte dai militar fascisti di "Arena" ottiene un vasto seguito "popolare". Forti scioperi. Intensificazione della guerra civile. * 18 aprile: in Cile sciopero generale indetto dalla CUT contro la politica delle privatizzazioni, per l'aumento dei salari minimi e per la liberazione dei militanti sindacali detenuti e confinati. Centinaia di arresti tra i lavoratori. |