QUALE "PACE"
NEL GOLFO PERSICO
Da qualche mese è tregua sul fronte Iran-Iraq. Ma non c'è tregua per gli sfruttati, per i prigionieri politici, per i curdi oppressi nell'uno come nell'altro stato.
La "pace" che le flotte dell'imperialismo hanno portato in dono a questa "tormentata regione" ha la medesima natura anti-proletaria della guerra da poco sospesa. Registi, profittatori e marionette rimangono gli stessi di prima.
Il processo rivoluzionario aperto dall'insurrezione iraniana del '79 è stato ricacciato indietro. Ma tutte le contraddizioni restano aperte, spostate, semmai, su un piano più alto ed esplosivo.
Le due fasi dell'attacco imperialista
Da prima ancora che il movimento insurrezionale travolgesse il regime di Reza Palhavi, "normalizzare" l'Iran e il Golfo (il Golfo del petrolio!) è stato obiettivo permanente e prioritario del capitale imperialista, e degli USA più di qualsiasi altro.
Seppure con qualche ritardo, la grande minaccia potenziale per l'ordine capitalista contenuta negli avvenimenti iraniani fu colta bene nelle capitali d'Occidente. "È la prima seria rivoluzione dopo il 1917 per le sue ripercussioni mondiali", ebbe a dichiarare un ministro degli USA. In effetti, il febbraio '79 fu un grande terremoto sociale e politico, per l'Iran, per il Golfo, per i paesi "islamici", per il mondo intero. Crollò di schianto un pilastro della dominazione imperialista, mentre la più importante delle fonti di energia diventava incerta e a caro prezzo.
Milioni di proletari e di sfruttati, vera e propria spina dorsale del movimento rivoluzionario iraniano (senza poterne esserne, purtroppo, la guida), fecero intendere il proprio appello alla lotta di liberazione alle masse sterminate dei propri "simili" nell'arco che va dal Marocco alle Filippine. Le potenze imperialiste videro messa in discussione un'enorme riserva di caccia e, per conseguenza, la stessa "pace sociale" nelle metropoli. La loro controffensiva ebbe da allora un preciso e comune scopo: riportare il proprio ordine a Teheran e nel Golfo, per ri-consolidarlo ovunque.
In una prima fase, fatta eccezione per la missione decisa da Carter e grottescamente naufragata nel deserto di Tabas, le forze imperialiste hanno attaccato la rivoluzione, dall'interno e dall'esterno, senza esporsi direttamente. Dopo avere concorso a consegnare al khomeinismo la direzione delle masse insorte, hanno sospinto la borghesia irachena, che già per suo conto vi era interessata e veniva incoraggiata nella stessa direzione dagli stati arabi più reazionari, ad iniziare la guerra contro l'Iran.
I più "naturali" alleati della rivoluzione in Iran, il proletariato e gli sfruttati iracheni, venivano così inquadrati con la violenza, arruolati, eccitati, in nome della "nazione araba" minacciata, contro i propri fratelli di classe. Sotto il determinante impulso dei capitalisti e dei finanzieri democratici degli USA e di Europa prende avvio così una guerra reazionaria, che è stata la più feroce tra le guerre "locali" e la più lunga dai tempi di Waterloo. Essa ha potuto protrarsi per 8 anni esclusivamente perché la macchina della produzione bellica imperialista ha provveduto a rifornire senza posa Iran e Iraq, paesi privi di una propria industria militare.
Per il khomeinismo, la guerra con l'Iraq è stata un evento doppiamente propizio. Da un lato, infatti, gli ha consentito di tenere a freno e di deviare sempre più la pressione rivoluzionaria delle masse verso il falso bersaglio del "satana di Bagdad". Dall'altro, gli ha facilitato il compito di reprimere duramente, senza gravi contraccolpi immediati, l'avanguardia rivoluzionaria.
Nel frattempo, borghesi e capi riformisti delle metropoli tenevano con cura lontano il "focolaio" rivoluzionario iraniano dai sentimenti e dalla solidarietà del proletariato occidentale. Sulla guerra Iran-Iraq calava una cappa di silenzio. Che i "barbari" si facciano la loro guerra "in santa pace"...
Senonchè l'incendio sociale, parzialmente spento in Iran, anche per l'isolamento e l'immaturità del proletariato iraniano, riprende vigore nella regione, a partire dalla forte resistenza dei palestinesi e delle masse povere sciite-libanesi alla invasione israeliana nel Libano (giugno '82). Qualche anno dopo un'insurrezione popolare travolge in Sudan la cricca militare di Nimeiri, infeudata all'Ovest. Quindi, a stretto giro di posta, il movimento anti-imperialista si fa sentire anche in Egitto e Arabia Saudita. Il comune denominatore unificante di larga parte degli sfruttati in lotta diventa, nel silenzio della classe operaia del "centro" e davanti alla inconsistenza e viltà delle "proprie" borghesie "laiche", il riferimento all'Islam. L'Islam come arma di riscatto dalla miseria e dall'oppressione imposte dall'imperialismo (non islamico). Riferimento illusorio e distorto, certo, ma di un potenziale rivoluzionario quanto mai reale.
Entro questo contesto, la propaganda e la mobilitazione "anti-imperialista" del regime borghese-islamico d'Iran acquistano un'eco ed una portata che vanno molto al di là degli interessi e degli intenti dei loro stessi promotori. Il khoneinismo, che cominciava ad incontrare consistenti difficoltà interne per la resistenza della classe operaia e la cronicizzazione della lotta dei curdi, ne riceve nuovo alimento anche all'interno. E di nuovo può convogliare falangi di diseredati verso il fronte del massacro. L'Iraq di S. Hussein, scosso dai primi tangibili fenomeni di disfattismo, fa sempre più fatica a respingere i volontari e le truppe iraniane.
È a questo punto che la controffensiva imperialista entra in una seconda fase. L'attacco iraniano a Bassora (gennaio '87) si può considerare come il punto di svolta. Abbandonando la precedente, molto relativa, "neutralità", le massime potenze imperialiste d'Occidente si preparano ad intervenire direttamente nella "crisi del Golfo". "L'amministrazione Reagan non vuole che l'Iran vinca, e farà tutto il possibile per aiutare gli amici, arabi e no", dichiara Weinberger, ministro della Difesa americano. Nè lo vuole l'Europa, i cui media prendono a strepitare a tutto volume che "L'Islam è alle porte di casa", tentando di arruolare anche gli operai in una nuova "cristiana" crociata reazionaria non meno di quelle medievali. Nè lo vuole l'URSS, allarmata dai possibili contraccolpi interni di una eventuale vittoria "islamica". A sostegno dell'Iraq si coalizza pure la grande maggioranza della borghesia araba, inclusa una quota in espansione di "radicali", tutti impegnati ad allontanare da sè una radicalizzazione sociale che sanno essere solo momentaneamente ingabbiata nella camicia di forza "islamica".
Il "Time" titola: l'Iran contro il mondo, il mondo contro l'Iran. In realtà, la controffensiva imperialista e delle borghesie arabe ha come proprio nemico il fronte del proletariato e degli sfruttati dell'area in fermento. Il nemico da battere, per il mondo borghese-imperialista tutto, non è nè l'Iran come nazione, nè il Khomeinismo in sè: è ancora, come e perfino più che nel '79, la rivoluzione anti-imperialista che va riemergendo da più punti del sottosuolo "islamico". Il khomeinismo va colpito e ridimensionato perché faccia sino in fondo il suo compito di sabotatore dall'interno del movimento di massa. Sull'agenda imperialista è all'ordine del giorno la sua ristrutturazione in senso moderato, non la sua rovina.
Il fronte del proletariato e degli sfruttati avrebbe potuto opporsi a questa seconda fase del contrattacco borghese-imperialista solo unificando le proprie forze contro di esso. Ovvero: trasformando la guerra fratricida Iran-Iraq in guerra civile contro i "propri" regimi, complici in tutto o in parte dell'imperialismo ed appellandosi ai compagni di classe delle metropoli perché scendessero in lotta contro i rispettivi governi. Ma per uno sviluppo di questo tipo mancavano ancora, anzitutto a livello internazionale, le precondizioni oggettive e soggettive.
In direzione tutt'affatto diversa si è mosso il khomeinismo che, se da un lato ha reiterato i propri ambigui proclami di guerra contro il "Grande Satana" imperialista, dall'altro - nel mentre manteneva una ferrea stretta sul proletariato - ha dato ad essi sempre minore consequenzialità nella pratica, portando allo sbaraglio le masse ancora disponibili alla lotta contro l'imperialismo. Nulla di meglio è venuto, poi, al fine della unità di classe degli sfruttati, da quel "nazionalismo rivoluzionario" arabo (alla FPLP, per intenderci) che non è andato oltre l'imbelle deprecazione della "guerra insensata" ed il conseguente appello interclassista ad "uno sforzo unificato regionale ed internazionale per fermare questa guerra irrazionale" (così "Democratic Palestine" del luglio '87).
Chi ha vinto?
Divisi e contrapposti tra loro i proletari e i lavoratori poveri iraniani ed iracheni, mancante una politica capace di unire gli sfruttati arabi, e iraniani, e soprattutto rimasta passiva la classe operaia metropolitana rispetto all'intervento occidentale nel Golfo, la vittoria imperialista sulla risorgente mobilitazione anti-imperialista degli sfruttati "islamici" era nell'ordine delle cose. Essa è passata, di necessità, attraverso la sconfitta dell'Iran, accompagnata dal divieto a vincere imposto all'Iraq, per scongiurare l'indesiderata eventualità che la resa khomeinista fosse l'avvio della frana del regime islamico iraniano.
Alla vittoria dell'imperialismo sono seguiti i proclami di giubilo e fiumi di menzogne. Lasciateci preferire i primi per la loro (relativa) schiettezza. Ha scritto Mc Farlane, ex-consigliere militare di Reagan: "Con la capitolazione dell'ayatollah Khomeini, la più pericolosa ed intrattabile minaccia che l'Occidente ha conosciuto alla fine del XX secolo è stata messa in scacco" ("Los Angeles Time", 29 luglio '88).
Mentre la "grande" stampa italiana si è congratulata con sè stessa per il buon esito del proprio interventismo, i capi riformisti sono andati in cerca di altri vincitori, più -come dire?- "presentabili" agli occhi del proletariato. Si tratta di uno sforzo del tutto risibile e mistificante. L'ONU? Ma che cos'è l'ONU se non l'agenzia-portalettere delle grandi potenze imperialiste, che dispongono dei suoi De Cuellar con la medesima sovranità con cui una "cupola" mafiosa dispone dei propri picciotti? La ragione? Ma i fatti stanno lì a provare che la guerra Iran-Iraq ha risposto in pieno al razionalissimo intendimento borghese-imperialista di bloccare e soffocare la rivoluzione iniziata in Iran. La diplomazia? Non ha vinto la forza, ma la diplomazia -insiste "L'Unità" - e aggiunge, col petto in fuori: italiana. Certo, quella diplomazia imperialista (anche italiana, d'accordo!) che ha saputo applicare a perfezione il suggerimento del consigliori-Kissinger: "Lasciate che la guerra continui fino a quando sia l'Iran che l'Iraq saranno in ginocchio". La diplomazia della FIAT, dell'IRI, delle banche, degli alti comandi militari, di cui la classe operaia potrebbe diventare la claque solo a patto di tradire se stessa.
La tregua tra Iran e Iraq è dunque sopraggiunta per imposizione delle stesse potenze prime responsabili della guerra reazionaria. La "pace" che ne è scaturita porta la loro impronta di classe, e dovrà perciò significare la massima pace sociale nei due paesi e nell'area medio-orientale. Questa "pace" dovrà soddisfare, con lo sfruttamento a sangue dei lavoratori del Golfo, i superprofitti che il capitale imperialista s'attende dalla ricostruzione, per rafforzare il dominio capitalistico nelle stesse metropoli.
Della natura imperialista di questa pace hanno già fatto esperienza i kurdi del Balistan atrocemente bombardati con armi chimiche dal regime irachene giusto all'indomani del cessate il fuoco. Ed iniziano a farne esperienza i lavoratori dei due paesi chiamati dai rispettivi regimi a nuovi sacrifici necessari a pagare quella taglia posta sulle loro spalle che è costituita dai prestiti internazionali di guerra e di "pace". La pace per cui giubilano i managers e i governanti del capitalismo occidentale, i dirigenti riformisti, gli spiriti "umanitari" e quant'altri, la "pace" che non cesseremo di denunciare, peserà sulle stesse classi sfruttate sulle quali e contro le quali si è abbattuta la guerra reazionaria momentaneamente sospesa. E tanto più peserà sui "popoli senza patria" dell'area, quali i curdi ed i palestinesi.
Ma il fuoco continua a covare sotto le ceneri
La "pace" imperialista imposta nel Golfo Persivo è strutturalmente instabile. Sia perché rilancia a più alto livello la competizione inter-imperialista per il controllo sul Golfo; sia perché sono rimaste irrisolte, e vanno semmai ad acuirsi, le contraddizioni sociali da cui nacque l'insurrezione del '79 in Iran e tutto il suo vasto "seguito" fuori dell'Iran.
Iran e Iraq sono allo stremo delle proprie risorse. Ciò che li rende entrambi più dipendenti che mai dall'imperialismo, per via dei prestiti, degli alimenti, dei macchinari e, ovviamente, delle rinnovate forniture d'armi che vanno avanti a più non posso. Ora, i massimi stati imeprialisti hanno svolto sinora una azione convergente in senso controrivoluzionario, ciascuno mirando, però, a proteggere i propri distinti interessi. La vittoria conseguita e la prospettiva, ancorché piena di incognite, della ricostruzione post-bellica ne esaltano la concorrenza reciproca. Fino al '79 il dominio dello sfruttamento delle risorse naturali ed umane dell'area era, grazie allo Scià e all'Arabia Saudita, affare riservato degli USA. Dopo il '79 questo monopolio di fatto è venuto meno. Stati europei e Giappone hanno strappato agli "amici" - rivali uno spazio che non hanno intenzione di restituire, e anzi, viceversa, cercano di ampliare l'uno a scapito dell'altro. Per parte loro gli USA, che più di tutti si sono esposti nell'aggressione imperialista, si preparano a pretenderne gli utili. Questo contrasto di fondo non mancherà di manifestarsi, a maggior ragione se la congiuntura economica internazionale volgesse al brutto.
D'altra parte, si è venuto ad approfondire, negli anni della guerra ed a causa di essa, il solco tra le classi che "insieme" rovesciarono il regime di Reza Palhavi. Lo ha riconosciuto lo stesso premier iraniano Mussavi: "i ricchi sono diventati immensamente ricchi, i poveri molto più poveri". La guerra reazionaria ha falciato centinaia di migliaia di vittime nel proletariato e tra i diseredati, mentre le classi possidenti mettevano al sicuro all'estero i propri "ragazzi".
Andata in rovina l'agricoltura di intere regioni, almeno due milioni di contadini poveri sono stati sradicati dalla terra. Per la decimazione dell'industria, decine di migliaia di operai hanno perso il lavoro. La disoccupazione è incalcolabile.
L'inflazione è al 50%. Al polo opposto, su queste miserie, bazarí, banchieri, proprietari terrieri, mullah ed usurai hanno creato o ingigantito le loro fortune, mentre la borghesia industriale ha potuto giovarsi di una disciplina dispotica che ha riportato la condizione operaia indietro ai tempi dello Scià. Non un capello è stato torto ad uno dei bazarì speculatori, mentre la repressione statale si è accanita e si accanisce sulle avanguardie dei lavoratori.
Del resto, in tutti questi anni il conflitto, sordo o palese, tra le classi propriatarie e le masse sfruttate è andato avanti con riflessi tangibili anche all'interno dell'apparentemente unitario campo khomeinista. Tanto avanti da potere ormai distinguere abbastanza nettamente in esso due tendenze principali, che vanno scontrandosi, anche nel governo, sulla politica interna ed internazionale.
L'una, che di solito è definita pragmatica, è sempre meno cripticamente filo-capitalista e filo-occidentale (mantenendo sempre, beninteso, il riferimento all'Islam ed alla "rivoluzione islamica"). Costoro, guidati -pare- da Rafsanjani, propugnano maggiore "libertà" per l'iniziativa capitalistica privata a tutti i livelli, spingono per l'avvio del processo di ri-privatizzazione delle aziende statizzate e del commercio con l'estero, chiedono di archiviare definitivamente ogni ipotesi di riforma agraria radicale. Sono per una limitata "laicizzazione" dello Stato, volta a ricucire le relazioni con la borghesia e la piccola-borghesia occidentalizzanti. Vogliono che le forze armate siano riorganizzate su basi esclusivamente professionali. Chiedono lo scioglimento dei pasdaran non già per i loro crimini antiproletari, ma perché la composizione plebea li rende insicuri per i compiti di ulteriore repressione sociale sui diseredati. Questa tendenza fa, in sostanza, proprio lo slogan "ricostruire l'Iran, invece di esportare la rivoluzione". È per perseguire il massimo di "riavvicinamento" possibile all'Occidente e agli stessi USA.
L'altra tendenza, definibile populista o "radicale", propugnatrice, cioè, di un "capitalismo popolar-statale", esprime un programma che le classi proprietarie hanno bollato addirittura di "bolscevismo" (?!). E cioè: mantenere nelle mani dello Stato il commercio con l'estero e la grande industria; inasprire il fisco contro i profittatori di guerra; distribuire ai contadini parte delle terre dei grandi proprietari fondiari; corrispondere un salario minimo ai senza-lavoro. Costoro osteggiano l'apertura politica all'Occidente, o -per lo meno- agli USA. Non escludono, come fa invece l'altro "partito", di utilizzare la tregua attuale per prepararsi alla ripresa della guerra contro l'Iraq e "contro l'imperialismo". Dichiarano di voler mantenere viva la solidarietà tra gli oppressi di tutto il mondo islamico.
Il conflitto tra queste due tendenze, che è arrivato fino allo scioglimento del PRI, per un arco di anni l'unico organizzatore politico di tutti gli "islamici", indica che la inesorabile divaricazione oggettiva tra classi sfruttatrici e classi sfruttate rende sempre più difficile la loro convivenza all'interno dello stesso blocco sociale e politico: anche quella parte delle masse diseredate che tuttora considera l'Islam come la propria bandiera di lotta, sente sempre più il bisogno di darsi "propri" contenuti e "propri" organismi, ancora subalterni -certo- alla mistificazione della "rivoluzione islamica", ma già distinti.
È un processo, questo, visibile su più ampia scala. In Libano (dove si scontrano la borghese "Amal" e il plebeo "Hezbollah"), in Palestina (dove i "radicali" di "Hamas" si pongono come alternativa agli stessi islamici conservatori inquadrati nel centro-destra di al-Fatah), in Egitto (dove i notabili trasformisti dei "Fratelli musulmani", pronti al compromesso con Mubarak e l'imperialismo USA, vengono contestati dalle formazioni extra-parlamentari "islamiche" che si ricollegano al nasserismo più militante in nome dell'anti-imperialismo), e così via.
La causa materiale determinante di questo processo è l'accresciuta pressione imperialista sull'area del Golfo e sul medio-Oriente. Gli imperialisti tutti sanno molto bene quanto sia importante, per mantenere il proprio ordine nelle metropoli e nel mondo, ristabilire il pieno controllo sull'intera ricchissima regione entrata in sommovimento dopo l'insurrezione iraniana. Ciò che richiede un grado di subordinazione strettissimo delle locali borghesie e la loro crescente difficoltà a cauzionare, anche solo a parole, le necessità delle masse oppresse.
Che tutte le tendenze "islamiche" in campo, comprese quelle "radicali", sono da cima a fondo estranee e contrapposte alla prospettiva della rivoluzione proletaria mondiale, è per noi, come per altri, scontato. Molto meno scontato è, invece, che questo fenomeno di polarizzazione sociale e politica va collegato al fatto che la lotta antiimperialista ha l'effetto inesorabile di scardinare i blocchi sociali tra borghesie "dominate" e masse sfruttate.
Non nutriamo facili illusioni nè per l'immediato, nè per il futuro. Comprendiamo che il proletariato iraniano è oggi quanto mai indebolito e stremato, mentre la sua avanguardia continua a subire la feroce repressione di classe. Intuiamo la profonda delusione che la vittoria imperialista può avere prodotto in masse diseredate che si sono illuse di condurre una autentica "guerra di liberazione" sociale sotto le insegne di Khomeini. Ma siamo assolutamente certi che questo primo decennio di rivoluzione, guerra e controrivoluzione non è passato invano.
In queste circostanze, insegna Lenin, le classi ed i partiti "si rivelano" gli uni agli altri "nel vivo dell'azione". La classe operaia ha certamente appreso l'importanza decisiva di avere un proprio programma ed una propria organizzazione.
Le masse sfruttate hanno bruciato almeno parte delle proprie illusioni sulla natura "rivoluzionaria" del khomeinismo. Le classi intermedie urbane e le loro espressioni politiche occidentalizzanti (il "Fronte nazionale", i Mojahedin, etc.) sono caduti, per la loro complicità con il khomeinismo o -peggio ancora- per la loro subordinazione diretta all'imperialismo, in una crisi di credibilità da cui non potranno mai più risollevarsi. Per altro verso, l'inconsistenza delle "alternative" indicate dal democratismo piccolo-borghese (Fedayn, etc.) ha cominciato a divenire parte dell'esperienza delle masse più combattive. Gli irriducibili curdi, infine, stanno toccando con mano l'impossibilità di giungere alla "liberazione nazionale" se non in un quadro di lotta unitaria tra di loro e con tutti gli sfruttati dell'area.
La "pace" nel Golfo è soltanto provvisoria. Il fuoco della guerra all'imperialismo e al capitalismo cova sotto le ceneri. Quando riprenderà ad ardere, troverà un'atmosfera un pò più "pura".