CGIL: CRISI
E NUOVO CORSO"Una crisi aperta dalla sinistra si è chiusa con la vittoria della destra". Ma quale sinistra, quale destra? Fisicamente assenti e mal informati, gli operai non hanno proprio contato nulla nella vicenda?
È di pochi giorni fa, la prima, importante, decisione "operativa" presa dalla CGIL sotto la nuova direzione Trentin: la chiusura della vertenza fisco e la revoca dello sciopero generale. In altra parte del giornale commentiamo la vicenda; qui la ricordiamo perché, se l'avvento del nuovo segretario generale aveva alimentato in qualcuno la speranza in una inversione di tendenza della politica sindacale a "cedere" di questi ultimi anni, è stato prontamente disilluso. Sono bastati due mesi perché la realtà confermasse quanto gli operai di Milano, di Torino, di Napoli ecc. avevano chiaramente espresso al momento delle "battaglie" interne alla direzione CGIL: sfuggiva il motivo del contendere, nella misura in cui non erano gli obiettivi, il metodo, la stessa politica sindacale (più volte, negli ultimi mesi da loro aspramente criticata) ad essere messi in discussione, ma semplicemente gli uomini che l'avevano portata avanti e che, fino ad allora, avevano avuto il pieno appoggio di chi, ora, li contestava.
Apparentemente, infatti, gli attori che, a partire da ottobre e fino alla conclusione del rimpasto ed all'elezione di Trentin, si alternano alla ribalta sui giornali, alla televisione, e nelle "infuocate" riunioni di vertice, hanno sollevato un gran polverone su "strategie e gruppi dirigenti da verificare" per lasciare, infine, tutto come prima. Insomma, sembrerebbe che il motto gattopardiano dell'occorre "cambiare" perché tutto resti come prima si attagli perfettamente al "nuovo corso" della CGIL.
È proprio così? La sostituzione di Pizzinato è stata tutta e soltanto una cortina fumogena o, al più, un'operazione di maquillage che ha portato a sostituire un uomo schivo ed "incolore" con un altro più adatto alla "politica-spettacolo" inaugurata in questi mesi da Occhetto e dai vertici del PCI?
I cultori delle manovre oscure del riformismo fatte per infinocchiare la classe operaia, risponderebbero di si; per noi la crisi del sindacato riformista è reale e le vicende dell'ultimo scorcio dell'88 non ne sono che i primi significativi segnali anche al vertice. Ma vediamo di analizzare un pò più a fondo le ragioni di ciò che è avvenuto.
Riformismo e classe operaia nella crisi capitalistica degli ultimi anni
Il cambio di direzione della CGIL segue di pochi mesi quello avvenuto nel PCI. E ovvio che non ci troviamo in presenza di una semplice coincidenza, ma esistono movimenti più profondi all'interno della società, nei rapporti tra le classi e tra classe operaia e riformismo che hanno comportato un primo sussulto all'interno di apparati di partito e sindacali che sembravano saldi e monolitici. Si dirà che il problema non è tanto di segnalare il movimento sussultorio quanto di individuarne la direzione in cui si spinge; questo è evidente, ma per intanto soffermiamoci su questo dato: nel giro di pochi mesi i due massimi dirigenti delle organizzazioni riformiste vengono sostituti e si inaugura il "nuovo corso".
Cosa è avvenuto? Diciamo subito che entrambi sono susseguenti a due momenti "traumatici" attraversati da queste organizzazioni: le prime (dopo il 1948) importanti sconfitte elettorali del PCI; le prime e significative opposizioni dei lavoratori alla politica sindacale e la crisi di "rappresentanza" ad esse collegate (aeroportuali, ferrovieri).
Come abbiamo più volte ripetuto dalle colonne di questo giornale, la polarizzazione sociale conseguente alla crisi capitalistica, fa insorgere quelle che sono le contraddizioni intrinseche al riformismo in un paese imperialista. Possiamo senz'altro dire che l'attuale crisi della CGIL si inquadra nella fase storica che sta attraversando il riformismo o, per meglio specificare, definisce le difficoltà del riformismo a continuare ad essere quello che era nella fase di sviluppo capitalistico ed a continuare a conciliare (esaurito il ciclo dello sviluppo capitalistico) difesa del sistema e difesa delle condizioni operaie.
A suo modo, dice bene Trentin quando accusa gli ultimi 10 anni di direzione sindacale per non aver saputo dare una linea di indirizzo strategico al sindacato nella "nuova fase" che si apriva.
Che il sindacato di Lama e di Pizzinato non avesse una strategia è una corbelleria bella e buona; ce l'aveva, eccome! Era quella ben espressa dalla cosidetta linea EUR e che consisteva nell'illusione di poter conciliare la difesa dell'economia nazionale, in una fase di più acuta concorrenza e lotta sui mercato internazionali, con una politica "controllata" di sacrifici dei lavoratori da ripagarsi sul piano economico, ma anche politico, in un futuro prossimo.
A prescindere dell'ovvia constatazione che questo futuro si è via via allontanato nel tempo e non se ne vede ancora l'alba, ciò che è significativo è l'incapacità, oggettiva prima che soggettiva, del riformismo ad antivedere le linee di sviluppo della lotta di classe. Oggi risulta più chiaro anche alle avanguardie di fabbrica che lo stesso riformismo sindacale (e per altri versi quello politico) ha sottovalutato la profondità e la consistenza dell'attacco padronale e governativo. D'altronde non poteva fare diversamente se non negandosi in quanto riformismo ed acquisendo quegli strumenti di lettura marxista della realtà che avrebbero evidenziato che la crisi ristrutturale e congiunturale, sostenuta dai loro economisti, altro non era che l'apertura di una fase di crisi storica del capitalismo. Nel contesto economico e sociale di questi anni, invece, la politica dei cedimenti (in vista dei futuri miglioramenti) è diventata, via via, non solo la base per ulteriori cedimenti il giorno successivo, ma si è ritorta contro la stessa CGIL indebolendola e favorendo l'ulteriore azione borghese di scompaginamento della classe. La battaglia perduta alla Fiat nell'80, i 4 punti di contingenza eliminati per decreto nell'84, la successiva politica dello scambio, sono tappe successive che segnano l'incapacità, che è IMPOSSIBILITA', del sindacato riformista a dare una risposta "all'altezza dei tempi", come dice Trentin, cioè di poter conciliare esigenze capitalistiche ed esigenze operaie.
Polarizzazione sociale e crisi del riformismo
La crisi ed i tentativi di controm
isure messe in atto dai vari governi che si sono via via succeduti, hanno determinato nella società italiana una polarizzazione sociale crescente. Da una parte la borghesia e la gran parte dei ceti medi e della piccola borghesia (che si sono nel frattempo schierati, dopo adeguate contropartite materiali, al fianco della prima), dall'altra la classe operaia ed il proletariato.Questo aumentato livello di contraddizioni ha avuto non poche influenze all'interno del fronte riformista. È certo che all'interno della CGIL, in questi ultimi anni, accanto ad un indirizzo (maggioritario) che ha teso a recuperare in tutti i modi (cioè cedendo ulteriore terreno) i perduti livelli di dialogo e concertazione con Confindustria e Governo, si è fatto strada un indirizzo mirante a porre con più decisione il problema delle esigenze operaie. Ciò non è, naturalmente, frutto di qualche folgorazione classista che ha colpito burocrati incalliti, ma semplicemente la conseguenza di movimenti materiali e sociali che sono avvenuti all'interno della società e della classe operaia in particolare. In questi ultimi anni, sotto l'incalzare dell'attacco padronale, se non assistiamo ad un momento di lotte generalizzate del proletariato, constatiamo una progressiva (seppur lenta e contraddittoria) ripresa di alcuni temi dell'indipendenza ed autonomia di classe. "Mettiamo al centro delle nostre lotte le esigenze operaie", affermano con perentorietà i delegati Fiom della Fiat in occasione della discussione e della preparazione della piattaforma integrativa del gruppo. Le lotte dei portuali di Genova, dei ferrovieri, degli aeroportuali, fino all'opposizione del coordinamento Fiat alle direttive dei vertici Fiom in alcuni svolti dell'integrativo del gruppo, sono i VERI detonatori che hanno innescato la crisi della CGIL. Possiamo senz'altro affermare che, aldilà della sua conclusione e dei giochi tra i vari gruppi di vertice, la crisi della CGIL si è aperta a "sinistra" non perché a farla esplodere siano stati i Bertinotti ed i Lucchesi, bensì le crescenti contraddizioni tra vertici e base del sindacato, tra direzioni sindacali e massa operaia. Prima ancora che Bertinotti, e con più forza ed istinto di classe, sono i lavoratori a mettere in crisi un sindacato sempre più collaborazionista e subalterno rispetto all'impresa ed al governo. Ben prima che Bertinotti e Lucchesi scoprano le difficoltà dell'unità d'azione con Cisl e Uil per differenze strategiche, sono gli operai, fin dal l'ormai lontano '84, che hanno bollato queste organizzazioni come filogovernative e tutt'altro che affidabili per ogni seria lotta.
Poteva, nell'attuale fase, questa opzione avere il sopravvento e spingere ad una maggior radicalizzazione la CGIL? No, decisamente no. Non solo perché l'apertura del dibattito e la "ristrutturazione" del sindacato avvengono tutto sommato in un autunno particolarmente freddo nella temperatura sociale, ma anche perché l'illusione riformista è di poter rientrare nel gioco della partecipazione e della contrattazione, che padronato e governo gli hanno progressivamente negato, con ulteriori concessioni, rimodellandosi su supposte esigenze più generali dell'intera società. È, in buona sostanza, ciò che è avvenuto nello scontro ai vertici del sindacato.
La via d'uscita
Le cause del contendere e dello scontro che si è verificato nella direzione CGIL sono tutte da inserire nell'ambito, propriamente riformista, che ha nella salvaguardia del sistema economico e sociale presente il suo obiettivo di fondo. Su questa strategia di fondo si innesccano varie opzioni; ma lo scontro è avvenuto lungo due direttrici semplificate dal dilemma: sindacato-istituzione o sindacato-movimento? Cosa si nascondeva dietro queste formule?
Di fronte alla crisi, di fronte ad un attacco borghese che tende a limitarne la funzione, di fronte ad una crisi di "rappresentatività" dei lavoratori disillusi e sfiduciati dal suo procedere, il riformismo sindacale ha in effetti due vie per farvi fronte. O riprendere con più decisione la via dell'autonomia contrattuale, della centralità delle lotte operaie da indirizzare verso un qualche progettato modello riformatore della società, oppure fare un ulteriore passo verso la collaborazione (pur sempre conflittuale) con la controparte. Affermava Terzi nel dibattito di quei giorni: "Non può bastare un ritorno ai problemi immediati e concreti della condizione di lavoro... oggi è richiesta un'azione sindacale che non sia soltanto rivendicativa, ma che entri nel funzionamento e nella gestione delle imprese". In questo nuovo Eden sognato dal riformista incallito, in cui la lotta di classe tende ad essere regolata da norme, pandette e commi, in questa "democrazia economica" in cui, come dice De Carlini in un articolo su "Rassegna Sindacale" del 10 ottobre, "siano in primo luogo coloro che rappresentano proprietà e lavoro", non può che trovar spazio un sindacato "organismo riconosciuto, potenza ed istituzione del lavoro nella società".
Insomma, opportunamente ricorretta in peggio, è la solita solfa di chi, pur "dal punto di vista operaio", tende a ridefinire i meccanismi economici e sociali del capitalismo modificando le "regole del gioco", facendosi interprete in prima persona delle necessità (e compatibilità) dell'imprese e del bilancio dello Stato (la "svolta" dell'EUR non è di 10 anni fa?).
È l'illusione di chi ritiene che il riconoscimento e l'istituzionalizzazione del sindacato come unico soggetto preposto alla negoziazione collettiva lo rafforzi, mentre in realtà, indebolendo i lavoratori nella loro rappresentanza, indebolisce a sua volta il sindacato almeno nella sua veste riformista. È l'illusione di chi accetta una logica di sindacato collaboratore subalterno alle esigenze aziendali ritenendo di poterla ribaltare (nel senso della "democrazia economica" auspicata da De Carlini) al tavolo delle trattative e fidandosi del "gioco democratico".
All'opposto Bertinotti ha attaccato questo punto di vista che "accetta l'esistenza, nell'impresa, di un punto di vista predominante su tutti gli altri: quello del profitto e dell'efficenza aziendale su quello della lotta all'alienazione ed allo sfruttamento nel lavoro".
Invece va assegnata "una priorità strategica ed una centralità assoluta nel sistema negoziale, alla contrattazione nei luoghi di lavoro su tutti gli aspetti della condizione di lavoro".
Pur non volendo chiosare a tutti i costi, siamo lontani -anche in questo caso- da una reale riappropriazione di autonomia di classe; non si negano profitto ed efficienza aziendale, ma solo li si vorrebbe subordinati ad una migliore "qualità del lavoro e della vita". Più ancora siamo lontano da una prospettiva realmente classista se si considera che al fondo della concezione di Bertinotti sta l'idea di un sindacato-movimento che annega (se non subordina) il mondo operaio nell'alleanza con altre forze sociali e classi che sono "... investite dalle grandi contraddizioni trasversali (!) di sesso, generazionali, tra ambiente e crescita quantitativa, tra lavoro stabile e precario".
Ciò nonostante egli (sembra addirittura inconsapevolmente, tanto è lontana la sua problematica dagli effettivi problemi che lo stesso delegato operaio si trova ad affrontare in fabbrica) è la testimonianza di come la questione operaia, la questione della sua autonomia ed indipendenza di classe ritornino con forza a porsi. Questo naturalmente non significa che dobbiamo aspettarci una qualsivoglia conseguenzialità da parte di questa "sinistra" riformista, come dimostra (subito) il successivo appoggio dato, anche da queste forze, all'elezione di Trentin a segretario, ma dimostra come quella classe operaia che ad ogni svolta si vuole liquidata, pur tra mille difficoltà, stà rimettendosi in marcia agitando fin d'ora le acque stagnanti del riformismo.
Il dibattito nella direzione CGIL non poteva avere, allo stato attuale, che una chiusura "a destra", come infatti è stato; la stessa struttura di base del sindacato, per non parlare dei delegati e della classe operaia, non sono affatto stati coinvolti nel dibattito, anzi si è provveduto a sollevare cortine fumogene sul suo svolgimento. Il punto di vista operaio, la vera questione da risolvere: come ricostruire una forza capace di contrastare l'attacco capitalistico, sono rimasti fuori della porta della direzione CGIL e non possono che essere risolti dalla classe operaia contando sulle proprie forze, sulla propria autonomia di classe, sulla propria capacità di difendere e rafforzare la propria organizzazione in fabbrica e nella società: la crisi del sindacato riformista non indebolisce questa prospettiva, anzi si pone intieramente sul cammino della ripresa di classe.