NELLA CRISI
JUGOSLAVA,
LA SLOVENIA GUARDA
A OCCIDENTE
"Repressione a Lubiana. Condannati i capi del dissenso sloveno. Dure pene ai giornalisti di "Mladina" che parlavano di piani di golpe militare". Così "la Repubblica" del 28 luglio scorso titolava un articolo di Dusan Pilic sull'attuale crisi generalizzata che vive la Jugoslavia sotto l'angolo visuale della particolare situazione in Slovenia. Già, perché tutta la Jugoslavia è in preda a convulsioni spasmodiche, ma non bisogna dimenticare che ciascun "pezzo" di Jugoslavia, ciascuna repubblica "autonoma e sovrana", vive questa crisi a modo suo, discosta - e se occorre contrapposta alle altre. Il caso Slovenia è esemplare e merita esser ripreso da questo giornale per le sue implicazioni non solo - e neppur prevalentemente - interne. Lo facciamo con questo primo articolo che ci viene direttamente dall'interno.
Chiunque si trovi a sbarcare a Ljubljana dopo aver transitato per Belgrado o Zagabria, per non parlare di Sarajevo o Pristina, sentirà subito di essere capitato in un'"altra" Jugoslavia.
L'aspetto della città si mostrerà dei tutto familiare per un austriaco o per l'ex-suddito dell'Impero AustroUngarico di Trieste e Gorizia, ma anche i numerosi turisti provenienti dalla Germania o dalle regioni di confine d'Italia si troveranno subito a loro agio. La cultura architettonica ed urbanistica che vi si respira è quella "mittel-europea", lontana le mille miglia da quella della Jugoslavia "profonda", e non solo nelle vecchie strutture, ma nelle stesse realizzazioni più recenti, del "doporivoluzione" (basti pensare all'opera profusavi da un Plecnik sino agli anni cinquanta, cui non a caso il Beaubourg parigino ha dedicato di recente una grande mostra. Il nuovo, "autoctono", si è ben fuso con l'antico, direttamente influenzato dal modello asburgico. Se poi si tocca la periferia si vedranno dei quartieri popolari estremamente dignitosi, che nulla hanno degli "slums" o delle "bidonvilles" (o delle "baraccopoli" alla romana, n.) di certe metropoli dell'Occidente "libero". I servizi sono più che sufficienti ed efficienti. I negozi traboccano di merci d'ogni qualità e prezzo, dal "popolare" al "dernier cri" della moda europea. Nelle librerie, ricche ed affollate, potrete trovare di tutto, a cominciare dalle più recenti pubblicazioni d'arte di Londra e New York (il cui costo a volume raggiunge sino ad un terzo ed oltre di un salario operaio mensile medio e che, "nonostante ciò", si vendono senza difficoltà). Ci sono persino dei negozi d'antiquariato, che espongono pezzi di "storia patria" a cifre da capogiro per la gioia dei nuovi borghesi indigeni. Il mercato della frutta e verdura, della carne e del pesce, è una gioia per gli occhi e suscita l'ammirazione e l'invidia dei non rari cecoslovacchi ed ungheresi che si spingono sin qui per godere di un "socialismo" dal volto affluente. Ed anche più "umano", visto che la presenza della "milica" è innavertibile e discreta.
Né si tratta di un'immagine solo lubianese. Tutta la restante Slovenia si presenta un po' sotto la stessa veste, passando attraverso la miriade di piccoli villaggi contadini sino agli altri centri urbano-industriali (Kranj, Maribor, Koper... per ricordarne alcuni, a Nova Gorica, creata ex-novo a ridosso della Gorizia italiana, trasformando un reticolo di insediamenti agricoli sparsi in un agglomerato di raccordo urbano di prim'ordine).
Ragioni e risorse dello sviluppo sloveno
Questo "regno di Bendogi" relativamente al resto della Jugoslavia (con l'eccezione di poche altre fasce modernamente sviluppate) trova le sue ragioni in tutta una lunga storia, economica e culturale, che ha visto questa terra da tempo immemorabile immersa nell'ambiente mittel-europeo di cui sopra dicevamo. Ma essa dipende anche dallo "sviluppo diseguale e combinato" della Jugoslavia titoista (ciò che i nazionalisti sloveni tendono spesso a dimenticare). Nel quadro della nuova Federazione, la Slovenia ha potuto giovarsi del proprio vantaggio di partenza per collocarsi, da un lato, in posizione sufficientemente paritaria nel quadro dei rapporti di scambio con i paesi occidentali confinanti (e l'Italia vi occupa uno spazio privilegiato) e, dall'altro, per impiegare il proprio "differenziale" all'interno della nuova Jugoslavia, conquistandovi spazi e drenandovi ricchezze per sé. Oggi come oggi, le punte avanzate dell'imprenditoria e del commercio sloveno si sono intrecciate in profondità con quelle della "regione Alpe-Adria" (Friuli-Venezia Giulia, Carinzia, Baviera), accentuando il distacco economico, sociale, culturale e politico infine rispetto alle repubbliche "sorelle" della Federativa.
"Il contributo della Slovenia all'export jugoslavo è stato, nello scorso anno finanziario, del 26%" , e questo solo dato spiega come mai la Slovenia "insiste su un maggior rispetto delle leggi di mercato, su una più ampia apertura verso l'estero e su un inserimento della produzione jugoslava nella suddivisione internazionale del lavoro" (Tanjug).
Il nazionalismo sloveno è di vecchia data.
(Si deve solo aggiungere, per non equivocare i termini della questione, che il nazionalismo sloveno non è, per forza di cose, di carattere espansivo ed aggressivo - e in ciò si distingue certamente dal panserbismo o dal croatismo estremista del passato; la sua caratteristica fondamentale sta nell'"autoriconoscimento culturale", in primis, in quanto nazione, senza chiamare direttamente in causa i confini statali. Tuttavia, in questo sa farsi valere più che a sufficienza, come si vede nella promozione dei diritti nazionali sloveni in Friuli-Venezia Giulia o in Carinzia e, all'occorrenza, riesce a fare il muso delle armi. D'altra parte, questa "mansuetudine" del nazionalismo sloveno, che è nell'ordine delle cose, non deve far dimenticare come, presentatasi l'occasione - alla fine della seconda guerra mondiale - di rimettere in causa i confini statali, ha assunto tinte forti di rivendicazionismo territoriale anche al di là d'ogni ragionevole giustificazione storico- culturale. In quell'occasione, gli "ultras" nazionalisti hanno trovato comodo mettersi sotto le bandiere del "comunismo", vedi per tutti L. Cermelj.).
Gli sforzi degli sloveni per definirsi come nazione si sono susseguiti, senza soluzione di continuità, sin dai tempi della Riforma (il protestantesimo ha giocato qui un ruolo propulsore nell'opera di autoidentificazione degli sloveni come popolo). La penultima tappa di questo processo si è data con la lotta partigiana e l'edificazione del nuovo stato titoista, considerata da molti nazionalisti, più o meno convertitisi al "marxismo", come cauzione di una Slovenia autonoma nel quadro di una confederazione di stati jugoslavi pienamente autonomi ed indipendenti tra loro. Al titoismo ed al post-titoismo si imputa oggi di aver sovvertito questa aspirazione, ripristinando, sotto nuove forme, i vecchi modelli panjugoslavi, ovvero pan-serbi, a struttura "dispoticamente" centralizzata. Ultima tappa quella attuale: la risollevazione, in sostanza, delle bandiere nazionali contro l'egemonismo serbo e - per dirla tutta - come separazione di fatto dalla Federazione, con l'occhio (nazionalmente) rivolto al vicino occidente.
Questo disegno è troppo ambizioso per poter essere portato a termine dai soli sloveni e nel quadro chiuso della sola Jugoslavia, e lo sanno bene gli stessi iper-nazionalisti locali, che, infatti, procedono saggiamente per gradi ed aggiustamenti successivi. La popolazione slovena non arriva, da sola, ad un decimo di quella jugoslava totale (2 milioni circa), con l'aggravante di un tasso di crescita molto basso, com'è tipico delle regioni "ricche". (1) Una battaglia in campo aperto per l'"indipendenza" sarebbe persa in partenza, ove non si saldasse ad un tempo ad altre spinte autonomistiche concorrenti ed ai coefficienti utili che può offrire la situazione economico-politica internazionale.
Sotto il primo aspetto, è facile vedere con quanta cura si tenti di mettere assieme tutti i motivi di scontento contro la politica serba, accusata - non gratuitamente, per altro - di "egemonismo" e di spirito centralista burocratico, nonché di puntare sulla compattezza e forza dell'esercito quale ultima carta per mantenere salda la struttura "unitaria" jugoslava (e proprio da qui è derivata l'occasione dei recenti processi di Ljubljana). (2)
In quest'ottica si mostra la massima comprensione per il Kossovo e la Vojvodina oppresse dal "panserbismo", e - lo si può ben capire - non per particolari sensibilità per le "nazioni oppresse", ma perché queste riescono oggi utili a minare l'autorità del "Grande Fratello" serbo...
Sotto il secondo aspetto, l'attivismo sloveno si dirige sempre più verso il vicino Occidente per trovarvi una sponda, in vista soprattutto degli sconvolgimenti traumatici che potrebbero dilaniare il paese di qui a non molto: intensificazione dei rapporti culturali e politici (oltreché economici, come s'è detto), rafforzamento o trapianto di istituzioni sovrannazionali in questo campo, contatti sempre più stretti con le forze politiche occidentali disponbibili ad un tale discorso di prospettiva etc. etc., sino a ventilare l'ingresso nella comunità europea (che dovrebbe farsi poi garante della sovranità nazionale slovena). Gli intelocutori non mancano. Per quanto riguarda l'Italia possiamo segnalare, in particolare, la posizione di spicco occupata dal PSI, ma soprattutto i tentativi di "sfondare", qui, a nome e per conto del capitalismo italiano, di radicali e verdi (i primi si sono già insediati in loco a più riprese per incontri e convegni e preannunziano di voler qui tenere il prossimo congresso del loro partito "transnazionale", senza neppur troppo nascondere i propri scopi) (3). Ma persino i demoproletari sono della partita, e con essi anche alcuni settori dei PCI confinario, di recente entrato in polemica aperta con la politica centrale jugoslava a proposito dei diritti delle minoranze, cominciando da quella italiana.
Insomma, è evidente che le rivendicazioni "autonomistiche" slovene entrano in un gioco estremamente complesso, all'interno come all'esterno del paese e che gli svolgimenti di un tale gioco non mancheranno di riservare delle sorprese.
Le forze politiche e sociali del "dissenso" sloveno
L'espressione usata in Occidente, secondo cui il "dissenso" sloveno apparterrebbe a gruppi "alternativi", è fortemente ingannatoria.
Nel formulare un suo messaggio di solidarietà coi "dissenzienti" sloveni, un nutrito gruppo di personaggi politici occidentali (tra cui il laburista Tony Benn, il capo della LCR francese Alain Krivine e i demoproletari italiani Capanna e Russo Spena) non può far a meno di notare che questi, oltre ad essere "sostenuti dalla popolazione" (ci risiamo col "popolo", e da che pulpiti "marxisti"!, n.), lo sono "anche, in maniera implicita, dal potere locale".
L'espressione è esagerata per difetto. In realtà, tutto il dissenso sloveno che va per la maggiore in Occidente, ed è anzi l'unico a trovarvi l'onore delle cronache, è sostenuto esplicitamente dal potere nazionale locale. Moralmente, come si usa dire, e materialmente. Ma forse neppure questa è un'espressione sufficiente, perché, in realtà, una larga parte delle strutture del "dissenso" sono parte costitutiva di questo stesso potere (non a caso, Jansa era candidato per la presidenza della Conferenza Repubblicana dell'Alleanza della Gioventù Socialista). La rivista "Mladina" (che significa "Gioventù") esce sotto l'egida del potere locale, e così i "gadgets" che l'accompagnano, come le diffusissime tee-shirts con scritte e disegni "provocatori", che si confezionano e si vendono nei circuiti "sociali" tradizionali. Discorso non molto dissimile vale per lo studentesco semi-punk- "anarchico" "Tribuna". E che dire della "Radio Student", i cui programmi, così tremendamente "eversivi", vengono regolarmente pubblicizzati sullo stesso "Delo"? Si può ancora aggiungere che il bollettino informativo delle tre organizzazioni "non ufficiali" "Il popolo per una cultura di pace", "Gruppo di lavoro per un movimento pacifista" e il "Comitato per la protezione dei diritti umani" (quest'ultimo facente direttamente capo all'Occidente) è in bella mostra, in apposita e sfavillante teca, nella libreria statale più importante di Ljubljana - per limitarci alla capitale -, mentre questi tre gruppi godono di due centralissime sedi nelle "esclusive" vie Dalmatinova e Kernikova. Altrettanto vale per altri gruppi informali.
Semplice tolleranza, sostegno "implicito" o sostegno esplicitissimo, e foraggiamento?
Il fatto è che il potere locale demanda a questa "pluralità" di voci "indipendenti" l'espressione di ciò che ufficialmente non può essere presentato come posizione ufficiale tout court nell'ambito dei rapporti federativi e questa pluralità deve servire ad allargare e cementare il concorso "popolare" all'azione nazionalistica. Scopo perfettamente conseguito, come ciascuno potrà constatare osservando come, ad ogni uscita di "Mladina", moltissimi chioschi di diffusione vengono letteralmente presi d'assalto dalla "popolazione".
(Per non dare un'impressione esagerata dell'intreccio tra potere ufficiale e rete "informale" od "alternativa", va - comunque - aggiunto che non mancano, in seno alla stessa compagine di partito slovena, voci, ed interessi, maggiormente legati ad imperativi centralistici, "panjugoslavi" direbbe alcuno, e che la lotta tra frazioni della burocrazia del potere è sempre viva).
Ma quali forze sociali e politiche stanno dietro questo movimento "dal basso e dall'alto"?
"Independent Voices from Slovenia", il bollettino delle tre organizzazioni sopracitate, in un documento di straordinaria virulenza "antiregime" (che ci riserviamo di pubblicare e commentare nel prossimo numero, n.), così risponde: "Nel periodo '57-'75 la sola opposizione al regime e alla sua dottrina era quella intellettuale", che è comunque da sola riuscita a creare "il maggior presupposto della risurrezione di un'opposizione politica propriamente detta"; a partire dal '64 (data della soppressione della rivista "Perspektive") "si sono formate delle teorie politiche marxiste (! !) e non marxiste antibolsceviche", con epicentro il "movimento studentesco" degli anni sessanta, e sono sorti "i cosidetti movimenti sociali (pacifismo, ecologismo, club culturali degli omosessuali, organizzazioni femministe etc.) che hanno trasformato l'organizzazione ufficiale della gioventù"; negli anni ottanta si è consolidato definitivamente "uno spazio pubblico (diventato anche politico"). "Questo fronte democratico - si avverte -, non è una formazione omogenea. Si può, al contrario, riconoscere in esso un ventaglio abbastanza largo, che va dalla democrazia cristiana (cioè: le strutture cattoliche, che vanno acquistando sempre più peso nel paese, con qualche parallelismo con quel che avviene in Polonia, anche se con un esercizio, al momento, più discreto della propria forza, n.) al movimento comunista per la democrazia, passando per socialdemocratici e liberali". Questo fronte disomogeneo si trova unificato nella difesa del "livello minimo" comune, costituito dalla "democrazia cosidetta borghese" e nel comune interesse a "combattere gli stalinisti autogestionari, minoritari in Slovenia, ma maggioritari in Jugoslavia" e nella lotta "per l'autonomia nazionale".
Il quadro non potrebbe essere dipinto meglio!
E - veniamo al nostro dunque! -, dove sta in tutto questo la classe operaia?
La dizione "stalinismo autogestionario" di "Independent Voices" è rivolta proprio contro di essa, prima ancora che contro la "sopraffazione burocratica". I proletari sono, agli occhi di questo "fronte" della democrazia borghese (senza cosiddetti), colpevoli di riferirsi tuttora ad "immobilistici" obiettivi di socializzazione del potere economico-sociale e politico, di lottare contro la burocrazia "con gli occhi rivolti all'indietro". Nei recenti, poderosi scioperi che si sono avuti di recente anche qui (in particolare a Maribor, che ha visto delle imponenti manifestazioni operaie di piazza), i proletari hanno rivendicato più pane e "più socialismo", anzi "un vero socialismo", memori delle aspirazioni e delle anche parziali conquiste immediate da essi strappate nel corso della "rivoluzione" e dei primi tempi della "costruzione del socialismo" in Jugoslavia. Orrore! Troppo poco nazionalisti, troppo poco democratici questi operai per i nostri "alternativi"!
Orbene, se è certamente un'illusione - ma sino a quando possibile? - quella di poter difendersi e progredire come classe nell'ambito dell'ideologia e delle strutture del "socialismo reale" jugoslavo, è altrettanto vero che questa rivendicata indipendenza e coscienza autonoma di classe costituisce, per noi marxisti, l'unica possibilità per dare una soluzione effettiva al problema della Jugoslavia e del mondo capitalista nel suo insieme. Il proletariato, unica classe produttrice della ricchezza sociale ed ultimo beneficiario di essa, non può sentirsi solidale col "fronte" che campa su di esso e mira a dividerlo e subordinarlo alla logica "democratica" della piena libertà di mercato (a cominciare da quello della merce-lavoro). L'insidia nazionalista può penetrare anche in parti di esso ad un solo patto: che esso perda completamente la propria capacità di autonomia, i propri caratteri politici di classe. (Ed effettivamente l'allargarsi ed il differenziarsi del mercato già induce a fenomeni di distacco di ristrette categorie "privilegiate" dalla restante massa ed a tentazioni nazionalistiche alla coda del movimento borghese).
Malauguratamente, e non a caso, l'alternativa operaia (alternativa vera!) non dispone di alcun referente ed appoggio ufficiale all'interno. Deve muoversi in qualche modo ripartendo da zero, per ricostruire la propria unità di organizzazione ed orientamento politico al di fuori di ogni e qualsiasi struttura ufficiale. Ma, soprattutto, questo fronte potenziale non trova alcun serio appoggio all'esterno, nelle organizzazioni "operaie" del vicino Occidente: LCR, DP, anarchici etc. etc. (per non parlare di socialisti e "comunisti"), così amorevolmente attenti ad ogni voce di "dissenso" borghese in Slovenia e Jugoslavia, non trovano neppure il modo di accorgersi di una "questione operaia" nel paese, il che è tutto dire! (4)
Eppure, questo fronte potenzialmente esiste e le sue prime manifestazioni si stanno facendo sentire. Riferirsi ad esso è l'imperativo per i marxisti bolscevichi jugoslavi e di tutto il mondo.
Note informative redazionali
(1) Secondo il censimento del '71, il gruppo nazionale sloveno assommava a 1.624.029 unità in Slovenia (su 1.727.137sloveni su tutto il territorio jugoslavo), rappresentando appena l'8,42% della popolazione complessiva jugoslava. Va notato, però, che si tratta anche del gruppo nazionale più compatto sul proprio territorio nazionale (il 96,%). Dal '71 all'81 la popolazione jugoslava complessiva è cresciuta dell'8,45%, mentre il tasso di crescita del gruppo sloveno è appena del 4,33% (una media, come si può ben notare, da paesi sviluppati), di poco superiore a quella del gruppo croato (3,81 %). Di converso, la popolazione albanese ha fatto un balzo del 24, 24,35 % ("si tratta d'una tipica esplosione demografica da Terzo Mondo ", nota A. Ciliga in "Il laboritinto jugoslavo", Milano, Jaca Book, 1983, da cui traiamo i dati di cui sopra).
(2) I processi di Ljubljana cui ci si riferisce sono stati motivati con la diffusione di segreti militari, trasmessi dall'ufficiale Ivan Borstner a "Mladina" e da questa resi pubblici. Il "segreto" consisteva in più o meno presunti piani di "normalizzazione" della Slovenia da parte dell'esercito, su iniziativa diretta di Belgrado. In ogni caso, come scrive D. Pilic su "Repubblica", "qualsiasi elemento, anche il più insignificante, che gli sloveni interpretano come un tentativo di ritorno ad un centralismo federale, provoca ire, proteste e rafforza i sentimenti nazionali che, per ovvie ragioni spesso si trasformano in quelli nazionalisti. In tal quadro qualsiasi intervento delle forze armate si trasforma, nella visione slovena, nel tentativo di limitare la loro autonomia, ossia la "sovranità" della Repubblica slovena." Va aggiunto che le pene comminate dal Tribunale Militare si sono mantenute al disotto di quelle paventate (5 mesi per un imputato, 18 mesi per altri due e 4 anni per il solo sottufficiale, allorché si parlava di possibili condanne al massimo della pena, previsto in 15 anni). Su ciò ha certamente giocato la mobilitazione "popolare"e la pressione esercitata dagli organi di potere sloveni.
(3) Pannella, in particolare, nel suo discorso di chiusura della recente campagna elettorale per le amministrative a Trieste, si è lasciato andare ad espliciti richiami alle nuove possibilità dell'Italia a rientrare in Jugoslavia, riguadagnandosi i territori perduti in seguito alla seconda guerra mondiale. Indipendentemente dal fatto che la bandiera tricolore possa di qui a breve risventolare sulle "belle nostre isole del Quarnero", si tratta di ripristinarvi la "nostra" influenza economica e politica. Questo è il "transnazionalismo" radicale!
(4) Nel "comunicato di solidarietà" dei Krivine e soci si parla di un "movimento alternativo sloveno" che "trascina importanti settori della società civile", "ecologisti, pacifisti, omosessuali e femministe". E i lavoratori? Come scriveva Marx, essi non fanno parte della "società civile" borghese, di cui sono solo gli schiavi salariati. Per LCR, lab, DP è una buona ragione per metterli da parte. Gli anarchici di "Umanità Nova" e della "Rivista A" non sono da meno, come si potrà vedere dalla loro stampa e dagli sforzi da essi profusi a Trieste per costituire un "comitato di solidarietà" col "dissenso sloveno" di purissimo stile piccolo-borghese e pro-nazionalista, in consonanza coi "fratelli" anarchici di Ljubljana. E questi sarebbero i terribili "antistato" che si arrogano il diritto di far le bucce al marxismo!