Diritto di sciopero: no a qualsiasi regolazione e autoregolamentazione
Con la fine dell'estate, che (chissà perché) è ormai stata eletta a stagione della tregua sindacale, si ripropongono in tutta la loro gravità i problemi dei lavoratori dei pubblici servizi. Puntualmente, così, si risolleva la canea di chi reclama a gran voce la regolamentazione per legge del diritto di coalizione sindacale e di sciopero.
Già ravvivatasi nella primavera scopersa durante le lotto dei ferrovieri e degli aeroportuali, la campagna borghese di intensificazione dell'attacco al diritto di sciopero si riapre in gran stile e punta ad ottenere in breve tempo dei tangibili risultati.
Da dove e perché l'attacco? È proprio vero che esso è esclusivamente mirato a "non compromettere l'utilizzo dei servizi pubblici" da parte dei cosidetti "cittadini"?
La mistificazione di quest'ultima affermazione è evidente appena si considera che solo qualche reazionario incallito, fino a pochi anni fa, avrebbe osato sollevare questa questione, che invece, oggi, è ripresa e fatta propria dal fior fiore della borghesia liberale e "modernista". Cosa è successo perché da una certa qual "tolleranza" si passasse all'attacco diretto contro gli scioperi? Come sempre, le idee sono il frutto di ben precisi movimenti economici e materiali che avvengono nella società e solo il loro modificarsi spiega le ragioni del modificarsi dell'atteggiamento della borghesia e del suo Stato verso il diritto di sciopero. Altro che diritto degli utenti e dei cittadini!!??
In un periodo di sviluppo del capitalismo, come quello che ha contraddistinto l'Italia nei trent'anni seguiti alla guerra, la borghesia ha potuto controllare la contraddizione tra capitale e lavoro salariato all'interno delle regole della democrazia borghese. I sovraprofitti imperialisti fluendo abbondanti nelle tasche della borghesia potevano anche permettere di tacitare, con qualche spicciolo, la lotta dei lavoratori e, addirittura, di incanalarla e "strumentalizzarla" in funzione dello sviluppo dello stesso capitalismo.
In queste condizioni l'applicazione dell'art. 39 e 40 della Costituzione, che disciplinano la costituzione degli organismi sindacali ed il diritto di sciopero, poteva ben essere sorvolata, come infatti è stato.
D'altro canto lo stesso sindacato riformista, in queste condizioni, poteva svolgere la propria funzione di rappresentante della classe salariata (in quanto classe per il capitale) potendo disporre di ampi margini di negoziazione e, soprattutto, di possibilità di distribuire "a pioggia" (a tutte le categorie) le briciole dei sovraprofitti imperialisti. Ciò gli ha permesso di conquistare il monopolio sulla classe (la cui azione concentrata e centralizzata rendeva comunque più efficace) perseguendo una sorta di tacita autodisciplina che la stessa borghesia considerava il male minore rispetto alle incognite di un'applicazione forzata di strumenti regolamentari dello sciopero.
La crisi del capitalismo ha modificato profondamente tutto ciò.
Con essa le possibilità da parte del capitale di "comperare" l'insieme della classe viene progressivamente meno. All'interno del tessuto economico e sociale vengono così a definirsi settori più o meno protetti, mentre si acuiscono le differenze di condizione tra settori occupati e disoccupati, tra lavoro sicuro e precario, tra lavoratori uomo e donna, tra il nord e il sud, ecc. Conseguentemente trova necessariamente alimento una lotta di classe più settorializzata e differenziata. Sono queste le condizioni che, da una parte, rendono meno unificabile per "virtù propria" le attuali lotte, e d'altra parte viene meno la "spontanea" disciplina delle lotte che aveva in qualche modo caratterizzato il periodo delle "vacche grasse" del capitalismo. Ecco così che la stessa autorevolezza e rappresentatività del sindacato viene a subire dei significativi cedimenti come le ultime lotte nei servizi hanno ampiamente dimostrato.
È questo processo che provoca le reazioni della borghesia. Dove prima era autodisciplina ora pretende disciplinamento, là dove era tolleranza ora reclama repressione. Non c'è forse una costituzione da applicare?
È evidente che questa operazione richiede da parte dello Stato (più che mai comitato d'affari della borghesia) un'intervento mirante a regolare preventivamente gli stessi poteri del sindacato. Lo Stato non può più permettersi di delegare ad esso il controllo dei conflitti sociali ma mira apertamente:
a) ad inserire direttamente il sindacato, riconosciuto giuridicamente, negli organismi istituzionali; b) a subordinare definitivamente lo stesso sindacato alle ferree leggi del mercato capitalistico (sostegno incondizionato alle necessità dell'economia nazionale nella lotta di concorrenza sul mercato internazionale). Il progetto che porta avanti la borghesia è di fatto un attacco allo stesso sindacato quale è stato fino ad oggi.
E il sindacato?
Da una parte Cisl ed ancora più esplicitamente la Uil non hanno alcun problema a schierarsi in modo più o meno aperto con la linea di attacco borghese al diritto di sciopero e con ciò allo stesso sindacato. È forse questa una sorta di autocastrazione? Niente affatto. Essa esprime, soprattutto nella Uil, la volontà, manifestata col progetto del "sindacato dei cittadini", di superare definitivamente la contrapposizione tra salariati e non, tra massa operaia (considerata obsoleta) e ceti professionali "di sicuro avvenire", per un sindacato che proclami il superiore interesse del cittadino, in quanto tale e lo iquadri in un progetto di promozione dello stesso sviluppo capitalistico del paese.
Pr la Cgil, a scorno di chi la vede tranquillamente a braccetto coi De Mita, Marini, Benvenuto, Formica, ecc. il discorso è assai diverso. Essa, non c'è dubbio, riconosce la necessità di una "autoregolazione" degli scioperi per definire una specie di giusto equilibrio tra diritti dei lavoratori e quelli degli utenti dei servizi, ma ciò dovrebbe verificarsi con leggi "imperative per tutte le parti" e con una contrattazione che ridia vigore al sindacato e non con una regolamentazione per legge che si proponga di minare la stessa forza del sindacato. Al di là del fatto che l'unico criterio su cui i lavoratori si dovrebbero "tuttalpiù autoregolamentare" è in rapporto all'efficacia delle proprie lotte ed al mantenimento della compattezza del fronte proletario e suo Stato, la strategia riformista è portatrice di una illusione micidiale. La frammentazione e la stratificazione delle lotte del periodo che stiamo attraversando, infatti, non solo vanifica la stessa capacità contrattuale del sindacato riformista, ma ogni regolamentazione anche solo in un settore non può che essere il pretesto per la borghesia per preparare il successivo passaggio alla tappa successiva dell'attacco ai diritti di organizzazione e lotta dei lavoratori. L'autoregolamentazione tanto cara ai riformisti non può certo contribuire, in questa situazione, a rilanciare l'unità e la forza della rappresentanza sindacale, ma, anzi, contribuirebbe ancor più a demolirla.
Un tale rimedio alle tendenze centrifughe dell'unità del movimento dei lavoratori che pur sono state e sono presenti in alcuni settori del pubblico impiego, non farebbe che indebolire ulteriormente i lavoratori e lo stesso sindacato. La conclusione è ovvia. Il proletariato deve respingere ogni attacco al diritto di organizzazione e sciopero, compresa la stessa forma dell'"autoregolazione" riaffermando il principio che i lavoratori si devono regolare solo in funzione dell'efficacia della loro lotta e non degli interessi di qualsivoglia azienda o della stessa economia nazionale.