L'anno scorso furono siglati diversi rinnovi contrattuali di intere categorie di lavoratori, comprese le più importanti categorie operaie.
I risultati di quei rinnovi non costituivano che un misero recupero di tutti i cedimenti che gli operai erano stati costretti a fare negli anni precedenti, grazie soprattutto ad una politica sindacale molto accorta alle esigenze dei profitti e dell' "economia nazionale".
Ciononostante da quei contratti emerse un elemento di "novità": gli operai erano tornati a scioperare, erano ridiscesi nelle piazze. Un segnale, flebile quanto si vuole, ma evidente, che cominciava a porre un primo mattone a chiusura di un'epoca dominata dal seducente (per la borghesia) sogno della "scomparsa degli operai".
No. Gli operai non sono scomparsi. E, quel che più conta (e agita i sogni borghesi), non sono scomparsi come classe.
Questo era il vero obiettivo che la borghesia inseguiva. Anche quando le menti della intellighenzia borghese sproloquiavano di eliminazione dell'intervento umano nella produzione, prospettando la fabbrica come frutto di una combinazione di perfetti sistemi di automatismi produttivi, esse miravano in realtà ad una frantumazione della classe, a costringere gli operai ad un rapporto individuale con un "datore di lavoro" disposto a riconoscerne e premiarne la "professionalità", la dedizione all'azienda, l'impegno a migliorarne i risultati economici, ecc.
Una prospettiva non meno illusoria, e che proprio i contratti dell'anno scorso hanno cominciato a "svelare". Gli operai, dopo anni di arretramenti, dopo essere quasi scomparsi come soggetto politico attivo (di essi le cronache si occupavano, ormai, solo per celebrarne la progressiva "estinzione" o risaltarne la crescente depressione e sottomissione ai "diktat" aziendali, mentre ogni vicenda politica sembrava aprirsi e chiudersi senza che essi potessero esercitarvi la benché minima influenza) ritornavano sulla scena, riapparivano con forza nell'unico modo possibile: la ripresa della lotta collettiva.
Il ritorno alla lotta come unica arma per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro è stato, per gli operai, un fatto obbligato e reso necessario da una situazione ormai insostenibile. Sarebbe potuto rimanere, però, chiusi i contratti, un fatto isolato. Non è stato così. La somma di aspettative non soddisfatte con i contratti si sono riversate in miriadi di vertenze aziendali. Quelle categorie che non hanno questa "valvola di compensazione" hanno contestato più duramente la scarsità dei risultati contrattuali, o hanno alzato, già nel contratto - come gli aeroportuali - il tiro delle loro rivendicazioni. Questa spinta alla lotta non si è riversata solo nelle varie "code" contrattuali, ma si è espressa anche con l'adesione massiccia allo sciopero di novembre sul fisco, con la risposta decisa (ancorché pericolosamente frammentata sul piano locale) dei siderurgici al piano di ristrutturazione della Finsider, con la tenuta della conflittualità all'Alfa, con le lotte di Montalto di Castro, sostenute non certo a difesa del nucleare, ma dell'occupazione e del salario.
Se, insomma, i contratti sono stati il flebile segnale dell'inizio di una ripresa delle lotte, questo segnale si è andato, via via, consolidando, estendendo a tutta la classe una rinnovata fiducia nelle possibilità della propria lotta. Sotto questo aspetto rientrano nel corso di ripresa anche i risultati dell'elezione del CdF Fiat (sia nell'elemento di alta partecipazione, che in quello di dare il peso maggiore alla componente FIOM) e la grande manifestazione della donne (per limitarci alla "questione lavoro": non nel suo aspetto di riproposizione di tematiche "femministe" in un contesto prettamente piccolo-borghese - la rivendicazione del lavoro "più qualificato" - ma certamente nell'aspetto di attivizzazione di un gran numero di donne proletarie che il lavoro non ce l' hanno del tutto o ce l' hanno in forme precarie e di supersfruttamento).
Siamo, con tutto ciò, giunti, alfine, alla "svolta storica" decisiva, quella del proletariato che si costituisce in classe e, quindi, in partito rivoluzionario?
A chi si dovesse porre questa domanda per trarre dai sintomi di ripresa conclusioni "avanguardiste", e a chi, invece, la pone per irridere a quegli stessi sintomi e svalutarli, diciamo, innanzitutto, che "uno svolto storico" non si condensa in un unico momento, ma che è preceduto e accompagnato da passaggi necessari, più o meno "clamorosi", che si muovono esattamente in quella direzione, per quanto lontano ancora sia il punto di arrivo.
Da questo punto di osservazione è facile vedere come la classe operaia ritorna, oggi, a lottare, riprende cioè a difendere sé stessa prima di ogni altra "necessità generale". Lo fa, indubbiamente, ancora tenendo conto delle "necessità generali" di questa società, fuori della quale potrà veramente risolversi ad uscire allorché ne abbia sperimentato sulla propria pelle l'assoluta irriformabilità, ma ripone sé stessa innanzitutto al centro della sua stessa attenzione, riafferma la sua esistenza, come entità sociale e politica, in ultima istanza, come classe, con cui tutte le altre classi, e tutte le espressioni politiche, devono fare i conti.
La ripresa attuale delle lotte operaie può non essere il solido inizio di un nuovo ciclo di lotte, ma ne costituisce innegabilmente la premessa e ne contiene tutti gli elementi, anche quelli più apertamente contraddittori.
Tra le contraddizioni ce n'è almeno una che va assumendo contorni più netti: quella riformismo/classe.
Chi, meccanicamente, si attendesse che la ripresa di lotta operaia si traduca in una divaricazione immediata dal riformismo sindacale e politico avrebbe motivo abbondante di delusione; tutto sembra far desumere l'esatto contrario: la classe rinforza i suoi legami con il riformismo, rinnova la delega ai suoi capi anche se non al modo di prima; il riformismo, dal canto suo, gli rilancia "ponti d'oro" indurendo la sua linea sindacale e organizzando convegni come quello operaio del PCI.
Chi si ferma solo a questo dato e si straccia le vesti perché gli operai non riescono ancora a tranciare il cordone ombelicale col riformismo (come, magari, avrebbero fatto gli insegnanti dei Cobas!!!) non vede come quella delega sia oggi fortemente condizionata, come sia, cioè, sottoposta a "mandati" precisi (recupero salariale, difesa delle condizioni di lavoro, dagli attacchi "liberisti" del governo, ecc.) e ad un controllo diretto sullo stesso operato dei vertici, in particolare di quelli sindacali. Il fatto che il proletariato riempia sempre più di condizioni la sua delega al riformismo comincia a mettere a dura prova la tenuta stessa di questo come grande contenitore di istanze interclassiste.
Da un lato esso è costretto a rinsaldare i suoi legami operai facendo proprio il loro fronte di lotta; dall'altro ogni sua "riscoperta" degli operai gli aliena la simpatia di ogni altro settore co-interessato, socialmente e politicamente, all'aumento dello sfruttamento operaio, e inasprisce le contraddizioni nello stesso PCI.
È, quindi, nella ripresa di lotta assieme al riformismo che si trovano le condizioni stesse perché la classe operaia faccia fino in fondo i conti e si separi da esso.
Dinanzi a questa "ripresa" si parano, naturalmente, molte difficoltà. Alcune sono interne alla classe: il ruolo dei sindacati, la dialettica base/vertice e, soprattutto, la difficoltà ad estendere il fronte di lotta oltre i limiti categoriali e locali. Ma molte di queste difficoltà derivano dall'esterno, dal fronte padronale e governativo.
Finora il padronato ha mantenuto, per lo più, un atteggiamento "aperto": ha firmato i contratti e sta accettando di chiudere molte vertenze aziendali, concedendo qualche parziale integrazione salariale. Persino dalla FIAT non giungono segnali "nerissimi". In buona misura questo atteggiamento è un risultato dovuto alle lotte con cui gli operai hanno dimostrato di avere raggiunto il limite di tollerabilità dell'attacco capitalistico, paventando la minaccia concreta di estenderla ancora di più. Per il resto il padronato può mantenere questa relativissima disponibilità a "concessioni" (per altro quasi unicamente sul piano salariale, e di frequente legate ad obiettivi di produttività) grazie ad un particolare momento di tenuta dei ritmi produttivi (e dei livelli dei profitti). Nel contempo nei settori in cui le condizioni economiche sono già (per i padroni) difficili, la musica è alquanto diversa, come dimostrano, da un lato, il ricorso alla repressione poliziesca contro gli operai Italsider di Napoli e, dall'altro, la "durezza" dell'interlocutore Alitalia (sottoposto con la "liberalizzazione dei voli" ad una dura concorrenza estera).
Più in generale, il governo non ha disdegnato di ricorrere alla linea dura in più di un caso (oltre Napoli, Gioia Tauro, Montalto, le denuncie di Genova) a dimostrazione di come intende fronteggiare quelle lotte per le quali non ci siano spazi di mediazione, e che la stessa borghesia prevede in aumento, considerando l'accumularsi di nere nuvole di tempesta sull'orizzonte economico mondiale.
La stessa diffusione dell'esigenza di rafforzamento dell'esecutivo, di governo "forte" trova la sua spiegazione nella necessità borghese di intervenire con celerità e senza intoppi nelle ristrutturazioni economiche, sociali e politiche, che il livello, vieppiù crescente, della concorrenza sul piano internazionale, va rendendo sempre più urgenti.
E quale maggiore intoppo della lotta operaia?