La conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti

"ALLA FINE DEGLI ANNI '80 HA ANCORA UN SENSO
OPPURE NO UNA CRITICA DELL'ESISTENTE,
DELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA?"

Indice

Lo "sforzo eccezionale"

Cosa dicono i lavoratori?


L'interrogativo posto da Bassolino bene riassume LA QUESTIONE CENTRALE che oggi "più che mai" si pone a scala italiana ed internazionale. La risposta all'interrogativo è affermativa anche da parte del PCI. Perché, allora, la "critica dell'esistente" è venuta - ad un certo punto - meno? E come ridarle voce e gambe? Questi i nodi affrontati, in modo anche molto esplicito, dalla Conferenza, ma "più che mai" irrisolti.

Nella sua relazione introduttiva Bassolino ha offerto ad Agnelli e Romiti una citazione da A. de Tocqueville che non sarebbe male fosse meditata anche nel suo stesso partito:

"Si dice che non vi è nessun pericolo perché non vi è sommossa; si dice che non essendoci disordine materiale alla superficie della società, le rivoluzioni sono lontane da noi. Signori, permettetemi di dirvelo: credo che voi sbagliate… Osservate quel che succede in seno a queste classi operaie che oggi, lo riconosco, sono tranquille. E vero che non sono tormentate dalle passioni politiche propriamente dette allo stesso grado in cui lo sono state un tempo, ma non vedete che le loro passioni da politiche sono diventate sociali?".

Ovvero: la rivoluzione sociale è meno lontana di quel che possa apparire dall'apparente apatia della superficie e non v'è dubbio che la "passione sociale" saprà darsi al momento opportuno, secondo l'espressione di Marx, la conveniente "anima politica".

L'interesse straordinario della Conferenze nazionale del PCI tenutasi a Roma il 4-6 marzo sta esattamente nel fatto che con essa si è voluto dar voce soggettiva ad una "critica dell'esistente" (e, vivaddio, si "osa" tornar a parlare di "società capitalista"!) promanante dagli stessi fatti oggettivi, dalla posizione di crescente arretramento cui sono stati costretti per tutti questi anni la classe operaia e il proletariato in genere e dalla conseguente necessità per essi di innalzare - quanto meno - delle barricate di difesa contro ulteriori sfondamenti dell'avversario.

I negativi risultati elettorali del giugno '87 hanno accelerato nel PCI il processo di "autoidentificazione" di varie ed opposte posizioni in cui si esprime, a livello soggettivo, la polarizzazione di classe che attraversa lo stesso partito.

La sinistra - sociale e politica - del PCI afferma in sostanza: 1) che la sconfitta elettorale, è il risultato della sconfitta precedentemente subita sul piano sociale, non per breve od insignificante periodo da parte della classe operaia; 2) che alla sconfitta elettorale si deve quindi rispondere riprendendo la lotta sociale dei lavoratori, che, per la sua materiale centralità, è anche la sola in grado di esprimere un programma generale, "per tutta la società" su cui riaccorpare in un "unitario" disegno di "progresso" forze sociali e politiche diverse; 3) che, in ogni caso, cioè anche in assenza di immediati risultati tangibili in termini di voti e mandati parlamentari, una tal lotta è la sola in grado di spostare concretamente i rapporti di forza ("Se ci si muove, per dirla togliattianamente, dall'alto e dal basso, là dove nasce e si fonda, in fabbrica, il potere reale", Bassolino dixit).

"Le rivoluzioni non sono lontane"? "Riformiamo" il sistema per scongiurarle

Quest'analisi "operaista" è apertamente contestata nel PCI dalla destra sociale e politica, in cui si esprimono gli interessi extra ed anti-proletari di gruppi e classi venuti al partito in quanto rappresentante "statuale" dell' "economia (e della politica) nazionale", "al di sopra dell'interesse di classe" (…proletario).

Coop-managers, business-men, imprenditori a vario livello, professionisti, ecc., del PCI si sono, al massimo, "rassegnati" a lasciar passare la Conferenza come una sfilata del tutto innocua di lavoratori bisognosi di "sfogarsi". Potremmo dirlo con le stesse parole di Bassolino: "Ne sono ben coscienti i lavoratori stessi che, infatti, in varie conferenze hanno rivolto a noi e al gruppo dirigente, al partito nel suo insieme, la domanda: bene la Conferenza, ma fate sul serio o è una fiammata?".

Che nel PCI ci sia tutta un'ala che lavora a circoscrivere questa "fiammata" non è, di certo, un mistero per nessuno, e basti riandare al CC postelettorale per rendersene conto. La tesi "destra" è: "Un eccessivo 'operaismo' ci danneggia duplicemente, sul piano sociale e su quello elettorale". L'esatto opposto delle tesi della "sinistra".

Ma l'impegno a "fare sul serio, cercando di muoverci con coerenza e continuità" sul terreno di uno scontro sociale e politico di classe è anche elegantemente aggirato dal gruppo dirigente ultramaggioritario del PCI (dal quale la "sinistra" si guarda bene dal disaccorparsi). La chiusa di Natta alla Conferenza, per non parlare dell'altra "chiusa", di Occhetto, sulle pagine de la Repubblica, rovescia quest'impegno, facendo della questione operaia una subordinata ad un discorso di spostamenti di forza "politici", "istituzionali". I cancelli del PSI o della stessa DC sono, per questo centro paludoso del PCI, una fonte più certa (e in ogni caso più appetibile) di "potere reale" che non i cancelli della FIAT, dell'Italsider e via dicendo.

Rappresenta un'alternativa reale a tutto ciò la posizione di chi, nel PCI, si riferisce realmente alla classe operaia?

No, ed è bene dirlo subito (e non per tema che qualche iperfesso ci qualifichi di "filobassolinismo"). Il fatto è che anche questi settori del PCI si muovono nelle spirali senza via d'uscita di una visione totalmente ed esclusivamente riformista. In fondo, essi stanno sullo stesso terreno di de Tocqueville, "dal punto di vista operaio": sotto la superficie il mare ribolle; provvediamo a spegnere l'incendio prima che esso divampi. Come? Riformando il sistema, associando "sul serio" ad esso il proletariato, garantendogli "sul serio" ad esso un "potere" di compartecipazione di esso.

Con la differenza, rispetto ai liberali "illuminati", che tutto ciò si rivendica con un'azione "dall'alto e dal basso" e non per impossibili elargizioni a senso unico.

I discorsi svolti alla Conferenza - e parliamo di quelli più politicamente significativi - hanno ubbidito tutti a questa logica, l'"esistente" va "criticato" non in quanto sistema, e meno che mai in nome di un "contromodello" socialista che debba strapparli il potere, ma per i suoi difetti di funzionamento sul piano "democratico" ed in nome dello sviluppo della democrazia stessa (il valore supremo dell'attuale PCI, "senza aggettivi") che diventa di per sé "progressiva" quando ad associarvisi ed a stimolarla sia la classe operaia.

Leggetevi la relazione introduttiva di Bassolino e vi troverete la stessa pappa "roosveltiana" servita in tutte le salse all'ultimo CC (vedi numero precedente del nostro giornale). Che si dice?

Che negli ultimi anni l'offensiva neo-liberista (la "variante cattiva" della società capitalista, palesemente identificata col "modello FIAT") ha potuto fare il bello e il cattivo tempo "non solo nel mondo della produzione, ma anche in vaste zone della società italiana, ed ha incorporato via via poi, direttamente dentro di sé, compiti e funzioni che erano propri, una volta, delle istituzioni democratiche, dei sindacati, degli enti locali". Una sorta di "invasione di campo" altrui. Il potere economico accusato di dominare il politico ed il sociale anziché starne "democraticamente" al guinzaglio! E, infatti: quest' "anomalia" si è verificata per l' "assenza di una programmazione formale da parte delle autorità pubbliche" e per il "vuoto di governo" (noi "vetero" crediamo, invece, che i pubblici poteri, in quanto "comitato d'affari" del capitale, non abbiano lasciato spazi vuoti o sprogrammati rispetto a questa loro funzione istituzionale). Ovvio che, per tutti i Bassolino di questo mondo, si tratti allora di "ridefinire le regole del gioco", "restituendo" i debiti poteri agli organi democratici di governo della "cosa pubblica", da quello parlamentare centrale a quello sindacale, sua articolazione nella classe.

Inutile ritornare sui presupposti teorico-programmatici di una simile impostazione. Ad essa, prima ancora di dire che va in senso inverso al socialismo, alla rivoluzione socialista, obiettiamo che essa è spuntata in partenza dallo stesso angolo visuale riformista.

Bassolino eguale a Napolitano, allora (o ancora "più eguale" di lui)? E la base operaia militante del PCI eguale (o…) alla base socialmente e politicamente piccolo, medio e persino altoborghese dello stesso partito?

Assolutamente no, perché: 1) il discorso riformista di fondo non toglie che le conseguenze dell'offensiva capitalista ("di un certo tipo") sono esattamente viste, elencate e ad esse si dichiara - non foss'altro che verbalmente - lotta; 2) gli scopi che il movimento dei lavoratori dovrebbe prefiggersi per la ripresa propria e del sistema democratico nel suo insieme se effettivamente portati avanti provocherebbero (contro tutte le attese riformistiche) ulteriori divaricazioni e conflitti sociali e politici, riproponendo oggettivamente il dilemma capitalismo-socialismo, classe contro classe con quel che ne consegue: il passaggio dalle armi di una critica (slavata) d'opinione alla critica delle armi (ben affilate, si spera).

C'è qualcosa di interessante in tutto ciò per noi marxisti rivoluzionari? Insistiamo a credere che , e proprio nel momento in cui siamo vaccinati al meglio contro il riformismo.

Le sostanze infiammabili della lotta di classe e l'estintore riformista

Tenendo sempre d'occhio la relazione Bassolino per quel che essa ha di ufficiale e in qualche modo di compendiativo ("dall'alto e dal basso"), e senza dimenticare accenti più crudi che alla Conferenza si sono pur sentiti, vedremo come l'impianto riformista complessivo non possa assolutamente prescindere da problemi ed obiettivi reali, che sono, cambiati di segno prospettico, anche i nostri.

A Rinascita (n. 10, 19 marzo) Bassolino ripeterà che la lotta operaia per risarcire i lavoratori di quanto è stata loro strappato in questi anni (ed in tutti i sensi: dal salario al "potere" in fabbrica) "riguarda il futuro del paese, l'assetto della società, dello Stato, delle istituzioni. La crisi sociale è strettamente incrociata con la crisi democratica, con il grande tema dei diritti e dei poteri, del chi decide e del come (e aggiungiamoci anche il perché finalistico, n.) si decide. Di qui la nostra critica ai tentativi di separare istituzioni ed economia, sistema politico e società (…). Essenziale è il nesso tra la proposta istituzionale e i caratteri dello sviluppo del paese, tra la riforma dello Stato e un nuovo sistema di diritti individuali e collettivi".

LO "SFORZO ECCEZIONALE"

"L'effetto del tipo di ristrutturazione produttiva, e del tipo di politiche del redditi adottati negli anni '80 è stato quello di una compressione sia della quota delle retribuzioni sia del potere d'acquisto. Infatti, il costo del lavoro reale è aumentato del 4,8% e la produttività, nell'intero economica, del 7,8%. Quindi il costo del lavoro per unità di prodotto reale, il grande e ricorrente imputato dell'economia italiana, è diminuito del 2,8%. A fronte di questo abbiamo una crescita reale delle retribuzioni lorde del 5,7% e una diminuzione di quelle nette del 2,2%. In sostanza, nel 1987 il potere d'acquisto medio del lavoratori dipendenti di tutta l'economia è diminuito…". (Dal testo integrale della relazione introduttiva di Bassolino).

"Noi comunisti, pur essendo un partito di opposizione, non abbiamo esitato a parlare al paese il linguaggio della verità, a riconoscere i dati oggettivi e la gravità della crisi e ad affermare apertamente, di fronte alla classe operaia, ai lavoratori, ai giovani, la necessità di uno sforzo eccezionale ed unitario di tutto il popolo, per garantire la riprese…". (Dalla relazione di E. Berlinguer al XIV Congresso del PCI, 1975).

Lo "sforzo eccezionale" c'è stato… da parte della classe operaia; la ripresa è stata garantita per i capitalisti. 13 anni dopo il PCI si interroga sui risultati di questo "compromesso storico ", senza mai rimettere in causa le proprie responsabilità nel processo di spoliazione materiale (e politica) dei "diritti "e dei "poteri" dei lavoratori. Anzi: l'ipotesi di Berlinguer era "modernamente rivoluzionaria"… Peccato che, conti in tasca, i risultati siano stati quelli che nell' 88 si devono poi denunziare. Colpa di chi? Del manovratore, naturalmente. O dei manovratori, PCI compreso?

Noi diremmo "le stesse" cose, con "poche" varianti: "La crisi sociale è strettamente intrecciata con la crisi della democrazia borghese, col grande tema del potere che dev'esser finalmente strappato alla borghesia, al capitale. Un nuovo sistema istituzionale (socialista) non può essere separato da un nuovo assetto economico-sociale (socialista), e viceversa".

Quel che vogliamo sottolineare è che la correlazione tra lotta operaia e sistema economico-sociale e politico è esatta e che l'importante sarà ora che si parta finalmente dalle esigenze e dalla lotta operaia. La Conferenza del PCI non solo non ha potuto evitare quest'ultimo punto (che è poi quello nodale per l'aprirsi di ogni successiva dinamica, anche e soprattutto nel nostro senso), ma intorno ad esso ha assemblato ed organizzato decisive forze di classe, alimentandone le aspettative di riscossa (perlomeno verbalmente, si tornerà a dire, con doverosa riserva sui fatti a seguire; ma anche "le parole sono pietre" in certi casi).

A noi fa sorridere ('"ingenuità" con cui il riformista del PCI s'indigna per il fatto che "negli ultimi anni" (soltanto?) "hanno contato solo i profitti", "fino a creare una specie di piramide rovesciata (!) al vertice della quale era il profitto" e protesta che "l'Italia non è una Repubblica fondata sul capitale e sul profitto, come di fatto ha pensato e sostiene tutta una parte (!) del neoliberalismo (e quello soltanto, n.) italiano (bis, n.)", ma sul lavoro. Ovunque e da sempre il sistema borghese "si fonda" sul lavoro, ed è difficile immaginarsi una piramide coi profitti alla base su cui si erga sovrano al vertice "il lavoro".

Non abbiamo, invece, nulla da obiettare alla denunzia di ciò che ha significato l'offensiva capitalista in tutti questi anni per i lavoratori (e "per la società" più in generale). Questa parte della relazione Bassolino potremmo tranquillamente sottoscriverla, così come la proposta di "voltare pagina".

Solo che per far questo occorre che le sostanze infiammabili della lotta di classe non siano alimentate con… l'estintore.

Cominciamo col dire, allora, che se davvero si vuol andare avanti occorre rifare un po' meglio i conti col passato. L'offensiva di una data "frazione" neo-liberista si è dimostrata vincente in passato solo per virtù propria e per demeriti governativi? Il sindacato è stato semplicemente "costretto sulla difensiva" o non ha anche concorso ad imporre alla classe i "valori" della "compatibilità" a servizio del profitto sovrano? La "svolta dell'EUR" da che parte ha svoltato? E davvero l' "errore" del PCI è consistito solo e soltanto nella "delega di fatto sulle questioni sociali al sindacato, e per di più ad un sindacato in crisi"`? O non è, piuttosto, che entrambi si sono inizialmente sentiti "delegati" a far passare nella classe una precisa linea disfattista? Sibillinamente, la relazione di Bassolino recita che "alcune di queste idee (neo-liberiste, n.) si sono fatte strada, e a volte hanno trovato credito anche in ambienti democratici". E se chiedessimo nomi e cognomi di questi ambienti?

Niente paura. Non vogliamo far processi retrospettivi. Il futuro ci basta e avanza. Parliamo di futuro, dunque.

Obiettivi della ripresa, sindacato e partito

Ci troviamo in una fase di transizione, si è ripetutamente detto alla Conferenza. Abbiamo un ciclo di sconfitte alle spalle e non siamo ancora entrati decisamente in un nuovo ciclo di riscossa. Esistono tutte le condizioni oggettive e soggettive per farlo, posto che si lavori alla riunificazione del mondo del lavoro su un programma rivendicativo acconcio e gli si diano adeguati strumenti per esprimersi a questo livello ed al più ampio livello politico.

Il menù è appetitoso: non solo un doveroso recupero salariale (il che "va da sé"), ma una lotta ai ritmi crescenti ed alla nocività dell'ambiente, 1'estensione del diritti sindacali alle imprese minori ed all'enorme sacca del part-time, del sommerso, ecc., la rivendicazione quale obiettivo "transitorio" delle 35 ore per poter avviare, contro i prossimi 12-15 anni il passaggio, a scala europea, alle 30 ore, la lotta per un nuovo livello ed una nuova qualità del servizi sociali, e per una diversa politica fiscale, la rivendicazione dell'intervento sui processi produttivi "a monte", una pressione concreta per avviare la "reindustrializzazione" del paese, ecc. ecc., non dimenticando temi abitualmente trascurati, quale la piena parità di diritti per gli immigrati ed impostando in termini metodologicamente accettabili la "specificità femminile" all'interno della complessiva questione-lavoro. Non serve che qui riassumiamo oltre. Ci basta concludere che noi saremmo i primi a rallegrarci che sull'insieme di queste indicazioni si realizzasse un'autentica mobilitazione ed un reale movimento di lotta. La nostra linea distintiva verso il riformismo la tracceremmo ben volentieri dentro questa mobilitazione e questa lotta. (Vedremo poi come già il solo sentirne parlare ha fatto immediatamente nascere lo spettro di un "vetero-operaismo" o addirittura di una "sindrome francese" in certa "sinistra", PCI compreso).

Questo per gli obiettivi.

Quanto agli strumenti, alla Conferenza si sono sottolineati due punti: a) la necessità di "rifondare" sul serio il sindacato; b) la necessità di un diverso impegno del partito.

Cosa dicono i lavoratori?

Dalla relazione sulle inchieste promosse dalle Federazioni del PCI presentata, sotto questo stesso titolo, alla Conferenza:

"La posizione verso i sindacati emerge come fortemente critica… Alla Zanussi la politica sindacale nazionale è giudicata "insufficiente" dall'82% delle risposte, e quella a livello aziendale dall'84,4%… Anche il giudizio sull'azione del PCI per i lavoratori, così come quello sul sindacato, è fortemente critico: se lo è in misura un po' più attenuta, ciò è probabilmente dovuto al fatto che il rapporto (e le aspettative) sono un po' meno diretti e generici… (Sempre alla Zanussi), il 55,3% giudica "insufficiente" l'impegno del PCI sui problemi dei lavoratori, i133,201o lo giudica "accettabile" e solo il 9,3% "buono"… Ciò non significa che i lavoratori abbiano un atteggiamento filo-governativo… (anzi) malgrado le critiche al PCI le aspettative di cambiamento legate ad un governo con il PCI sono forti… (dall'inchiesta svolta a Forlì risulta che) solo il 14% degli operai e il 19% degli impiegati risponde che l'entrata del PCI nel governo non avrebbe "nessuna conseguenza", e solo il 2% dice "nulla di buono per il Paese". Oltre il 70% si attende grossi cambiamenti in positivo: "la soluzione dei problemi del paese" (28,4% degli operai… ), "un'amministrazione buona e onesta" (29,8%) o anche "radicali trasformazioni sociali" (11,5 %… ).

Da queste risposte "emergono alcune tendenze, comuni alle diverse situazioni e di notevole significato politico. Partiamo dall'indicazione più "pesante", che costituisce un campanello d'allarme: c'è una diffusa critica sia ai sindacati che al Partito Comunista, la cui azione viene ritenuta inadeguata rispetto ai problemi dei lavoratori. Ma questa critica non porta né a posizioni filo-padronali, sul luogo di lavoro, né a posizioni filo-governative, nella società. Essa nasce anzi da una forte coscienza dei problemi non risolti, nella fabbrica come nella società, da cui nasce una forte esigenza di cambiamento… I giudizi negativi sul sindacato e sul partito non sono quindi il segno di disinteresse o di ripiegamento, ma solo una valutazione critica dell'insufficiente risposta data da sindacato e partito alle domande che i lavoratori gli pongono".

Sulla questione del sindacato si è abbondantemente scivolato quanto ai contenuti della linea sin qui tenuta ed ai perché di essa, preferendo affrontare la questione dal punto di vista delle "regole nel rapporto" con i lavoratori. Occorre passare, si dice, dalla democrazia della ratifica a quella del mandato. Forte è lo scarto tra il sindacato che c'è e quello da costruire. "La rifondazione si farà dando la parola alle lavoratrici e ai lavoratori, oppure essa non si farà… Tra le novità da introdurre… la concezione e la pratica della democrazia… Il sindacato ad ogni livello tratta con un mandato del lavoratori e in un confronto continuo con i lavoratori".

Vi prendiamo in parola? Strano poi che proprio sull'Unità si debba leggere in questi giorni l'apologia della ratifica (ope legis) al sindacato in relazione alla lotta degli aeroportuali, il cui "mandato" al sindacato era di segno diverso rispetto alle trattative ed ai risultati conseguiti da quest'ultimo ed il cui "confronto continuo" col sindacato ha mostrato come non esista, per l'appunto, "rifondazione". Dove sta, allora, la novità nella concezione e nella pratica della democrazia da parte picista? L'Unità si è lamentata precisa mente del fatto che lavoratrici e lavoratori si siano arrogati il diritto alla parola (e all'azione), quelli della Uil, più "moderni" hanno minacciato, ove le cose continuassero per questo verso di ricorrere alle forze di polizia, delegando ad esse il compito di "convincere i lavoratori"…

È un "primo livello" di contraddizione.

Esso si complica maggiormente allorché si parla di democrazia sindacale nel senso di un superamento della logica delle "componenti" e di una diretta immissione alla direzione sindacale "ad ogni livello" di un'autentica rappresentanza della base, a partire da quella, "ampiamente maggioritaria", non iscritta o comunque non "organica" ad alcuna direttiva di partito.

Due domande. Che ne sarebbe, ove si attuasse coerentemente questo dettato, della "componente socialista", con tutto quel che ne consegue sul piano del rapporti politici più in generale? (Ed è perlomeno "curioso" che Bassolino si mostri contestualmente preoccupato dello "scarso peso" del socialisti nella CGIL, oggi, in regime di democrazia "delegata", quando quella del "mandato" semplicemente lo ridurrebbe a zero!). E in che rapporti verrebbe a trovarsi lo stesso PCI rispetto ad una massa di nuovo disposta ad esprimersi di per sé stessa?

Secondo punto. Il PCI è deciso a "rientrare in fabbrica". "Non si tratta di costruire sezioni parasindacali - si precisa -, ma sezioni politiche in grado di pesare non solo sui temi settoriali, ma sulla politica generale", perché l'azione sindacale può utilmente concepirsi, ed oggi soprattutto, solo alla scala delle grandi scelte politiche. Perfetto. Noi ci chiediamo se nella fase precedente ci sia stata semplicemente un' "assenza" del PCI su questo terreno, grazie alla "delega" al sindacato, oppure se esso non abbia sostenuto in campo sindacale una precisa politica generale (strangolatoria per il proletariato), giovandosi magari della sua "non intromissione" al solo scopo di coprirsi in qualche modo le spalle. Non è solo una nostra "maliziosa" deduzione: è lo stesso PCI che è costretto a leggere in questa chiave i risultati delle sue inchieste tra i lavoratori (vedi riquadro in proposito). IL tema, quindi, si sposta dalle modalità della presenza del partito sui luoghi di lavoro ai contenuti che esso verrà a portarvi "in prima persona".

Noi non possiamo che rallegrarci della fina di una fase di "scaricabarilaggio" dal PCI al sindacato e dell'inizio di un coinvolgimento diretto del primo nelle concrete scelte di politica sindacale, settoriali e generali. Bassolino ed i suoi si rendano ben conto che questa "nuova fase" non è destinata semplicemente a "colmare un vuoto", ma a ridefinire i concreti rapporti tra PCI e lavoratori e le linee politiche che vi sottendono.

È un essenziale terreno di sfida, cui siamo per primi interessati.

"Sindrome francese" o sindrome proletaria?

Tutta la "sinistra" sindacale e politica al di fuori (e in parte non irrilevante anche dentro il PCI) ha sollevato contro quest'impostazione del problemi del lavoratori un coro di preoccupati commenti, agitando lo spettro di una "sindrome francese" nel PCI ("massimalismo operaista", "ritorno al togliattismo", o magari allo "stalinismo" tout court). Le recenti polemiche del PSI su Togliatti non si capirebbero al di fuori di questa fondamentale preoccupazione, che non riguarda tanto un'impossibile ricollocazione "rivoluzionaria" del PCI, ma la funzione preventiva di questo partito rispetto ad una ben possibile ricollocazione conflittuale della classe operaia.

Non si tratta, insomma, di una "sindrome francese" del PCI, ma della sindrome proletaria di ripresa della lotta di classe. De Tocqueville insegni…

Di qui la corsa a "smontare" dalla a alla zeta gli assunti di base della Conferenza del PCI. Del Turco, ad esempio, è andato subito al cuore del problema, "smontando" la tesi di una "nuova centralità operaia": "Se il sindacato confederale facesse un'opzione simile tornerebbe indietro di molti anni"; il voto a Mirafiori è importante "ma non può essere vissuto come il "ritorno" dopo una lunga notte e come una conferma, a posteriori, delle scelte di quel tempo" e non va fatto agli operai delle carrozzerie lo "scherzo" (!) di "rimetterli al "centro" di tutto" (l'Avanti! del 6-7 marzo). Non esiste più "centralità operaia". Marini: "C'è una volontà vera di lasciare che il sindacato faccia il proprio mestiere? Se è così bene, altrimenti i conflitti saranno inevitabili". Benvenuto infine: no alla "democrazia sindacale" agitata da Bassolino, ovvero, poiché certe "verità" non si possono dire così brutalmente: occorre un deciso "superamento di assemblearismi inutili e confusi", anche e persino in fase di ratifica (figuriamoci poi per quel che riguarda il "mandato"!).

Ancora Del Turco ammonisce sul pericolo di compromettere il "pluralismo sindacale", inteso come potere istituzionale di decisione e di veto delle forze politiche direttamente collegate agli interessi dello Stato e del capitale: "Il confine da non valicare è solo ("solo"!, n.) questo: un sindacato che chiude con il suo pluralismo e passa alle regole liberali classiche: ogni testa un voto" (!!!).

I comunisti, com'è noto, dicono: "Ogni braccio un voto", cioè: è nella lotta e per la lotta che si computano i "voti", cioè i rapporti di forza (e non di "pensiero"). "Ogni testa un voto" dovrebbe essere una regola consentanea al liberalismo riformista. Oggi neanche questo è più vero. I Del Turco preconizzano il rifiuto di questo "liberalismo borghese classico" per tornare al più classico sistema di rappresentanza per… "ordini", sul modello ore-borghese precedente la Rivoluzione Francese. Conti uno la CGIL, uno la CISL, uno la UIL, "paritariamente", poco importando che la prima raccolga il grosso ed il meglio della classe operaia mentre altri raccoglie le pattuglie del cani da guardia, del crumiri, e comunque del ricattati. E, nella CGIL, conti uno la "componente PCI" ed uno quella socialista. Si risolverebbe così lo "scandalo" per cui la CGIL da sola conquista alla FIAT la metà del suffragi e del delegati pur essendo solo la terza parte degli "ordini" i n gioco ed attribuisce 50 delegati operai su 51 della "componente PCI" contro uno (il 2% scarsetto) a quella PSI.

Sbagliamo a dire che queste "preoccupazioni" hanno trovato buona eco sin dentro il PCI, preoccupato dell' "eccessivo sbilanciamento" a danno del compagni di cordata del PSI ed in vista del giochi che con essi s'intendono fare in vista di Palazzo Chigi? In realtà, è stato proprio l'Unità a parlare di un doveroso "risarcimento" da mettersi in atto a favore del "penalizzati" socialisti in sede di elezione di direttivo. La "trasparenza", la "rifondazione", la "democrazia di base" ecc. ecc. del sindacato incocciano in queste difficoltà, insite nella visione di una "via democratica alle riforme" che non è più neppur capace di elevarsi alla "togliattiana" visione della combinazione dentro il sistema lotta parlamentare-lotta extraparlamentare, competizione elettorale-competizione sociale. Difficoltà che non appartengono alla sola destra del PCI (che, per parte sua, ha semplicemente rigettato il "ricatto operaista"), ma al suo centro-sinistra, che da Natta ed Occhetto procede vai via sino ai Bassolino. Ovvio, pertanto, che le dichiarazioni d'intenti enunciate alla Conferenza potranno trovare espressione concreta unicamente andando oltre la stessa "sinistra operaia" di vertice.

La Conferenza del PCI ha offerto un'ulteriore testimonianza del fatto che la classe operaia è viva e più che mai centrale, perché più che mai la produzione di cose (di merci) e di rapporti sociali è attraversata dalla contraddizione insanabile lavoro salariato-capitale; che la punta globalmente più avanzata della classe (parliamo di masse e non di ristrette avanguardie), pur ancora interna al riformismo e, in particolare, alla versione specifica di esso incarnata dal PCI, è di nuovo indotta a muoversi in nome del propri interessi specifici; che questo processo di ripresa, quand'anche inizialmente entro i confini della "classe in sé", "classe del capitale", è destinato a riagitare nel profondo le acque della società e della politica, il che costituisce un prezioso campo d'azione per la presenza marxista rivoluzionaria.

Quest'ultima affermazione non sta, naturalmente, a dire che ci aspettiamo dalla sinistra riformista una qualsivoglia "consequenzialità" (anche e soltanto dal puro punto di vista operaio "in sé"), che si basterebbe poi raccogliere. Sin dall'inizio, la disponibilità a riprendere la lotta si scontra con l'ambiguità e l'assenza di un reale programma in questo senso. Questo "scarto" dev'essere colmato, se non si vuole che la tensione operaia che alla Conferenza "si tagliava a fette", come ha scritto la Repubblica) non rifluisca in nuove impasse, in ulteriori motivi di delusione e scoraggiamento.

È compito del comunisti rivoluzionari fondere il lavoro per spingere questi proletari alla ripresa delle ostilità e quello della chiarificazione politica, della delineazione di un quadro programmatico, senza di che le migliori armi riuscirebbero fatalmente spuntate. Il semplice "movimentismo" estremo non basta, così come non basta l'opposto - e specularmente complementare - "politichismo" ideologico proprio di coloro che, spinti troppo in là dall'odio per il riformismo, si rendono incapaci di vedere lo sprigionarsi entro i suoi ceppi delle forze costitutive del nostro futuro esercito di classe.